domenica 24 marzo 2013

Lo sciopero bianco


Lo sciopero bianco


Dopo aver messo da parte l'idea di scrivere un post sulla situazione politica attuale(lo stanno facendo già in troppi in giro e ripeterei solo cose già dette) ho comunque deciso, dopo tanto tempo, di scrivere un post vero e proprio. In questo caso si tratterà di un concentrato di inutili casualità buttate come mi vengono in mente. Del tipo "non mi piace l'abbacchio anche se a Pasqua è tradizione" e così via. Ad esempio, ho qualche giorno fa appreso una notizia che un signore di Teramo ha pagato una multa , da lui ritenuta ingiusta, di 110 con 2200 monete da cinque centesimi. "La vendetta delle monetine" titolava il giornale. Ecco, queste sono piccole azioni quotidiane che riescono sempre a stupire per la fantasia degli esseri umani. Non m'interessa sapere se le ragioni del signore fossero giuste o sbagliate. Egli è comunque un genio. Egli ha combattuto il sistema con le sue stesse armi. Non ha disatteso le regole, anzi, le ha rispettate alla perfezione, scegliendo tuttavia la modalità più sadica. Se i sindacati facessero come lui invece di fare scioperi di 8 ore puramente dimostrativi, credo che otterrebbero molti più successi. Pensate, invece di non andare al lavoro, un giorno tutti gli impiegati di un bell'ufficio decidono di rispettare il regolamento nella sua applicazione più ottusa, letterale, puntigliosa. Un minuto dopo i tassi di suicidio salirebbero alle stelle. 
E' solo una riflessione, ma è una riflessione che serve, secondo la mia opinione, a capire una cosa. Quel che non ci piace si può cambiare, e questo è un fatto. Ci sono diversi modi per cambiarlo. C'è il vecchio metodo giacobino, ovvero impugnare le armi e tagliare qualche testa. Qualcuno lo ritiene antidemocratico tuttavia. C'è poi un altro modo, ed è quello di infiltrarsi nel sistema e avvelenarlo dall'interno, oppure costringerlo a cambiare. E' il metodo più difficile, perchè si basa essenzialmente sul compromesso, sul rispetto di regole che vorremmo cambiare. Forse però è anche il metodo migliore. Lascia le teste al loro posto e ,magari più lentamente ma certamente con maggiore ponderazione, porta ai risultati voluti. Ha un difetto: chi s'infiltra nel sistema per cambiarlo dovrebbe conoscerlo a menadito il sistema, altrimenti rischia di finire male. Ma studiare il sistema è noioso, bisogna mettercisi d'impegno, ed è più facile sbraitare o andare appresso a qualcuno che sbraita. Protestare, protestare, protestare. Ma la dura verità dice che la protesta, se è pacifica, serve a poco o niente. La protesta deve mettere paura, e se non mette paura è vuota. Quindi, se di fare rivoluzioni non ha più voglia nessuno, forse sarebbe meglio accettare qualche compromesso, perchè è nel compromesso che a volte si dimostra il proprio valore e la propria sincerità d'animo.


Oh, cavolo! Avevo detto che non avrei fatto un post sulla situazione politica e invece...vabbè, per questa volta perdonatemi.

venerdì 15 marzo 2013

Quando a oriente sorge il sole


Quando a oriente sorge il sole

Rimane un sapore strano in bocca quando finisci di raccontare le tue storie, e cerchi di mandarlo via respirando sempre più forte,poi però ti riduci solamente a disperdere il tuo ossigeno nel cielo che ti maledice dall’alto e ti mostra la sua strana e luminosa oscurità.
Qualche volta capita che il freddo intenso della notte riesca ad accendere le stelle,e a farle scoppiare,come tanti piccoli fuochi che si liberano e sciolgono il ghiaccio funereo sulla strada. Due fiaccole mi circondano e mi riscaldano mentre appena fuori dal portico resistere al freddo diventa impossibile. L’aria sembra un coltello,tagliente come le risate di quelle due guardie appoggiate al muro di cinta; si divertono a prendersi gioco di me e chissà quante battute si stanno dicendo adesso, maledicendomi con la più tetra ironia possibile, tronfi e superbi, dall’alto della loro potenza e della loro superstizione,perché i vagabondi sono messi del diavolo,e vanno allontanati. E’ strana questa storia: non la conoscevo fino a quando un giorno,da ragazzo, mi trovai a parlare con un soldato di ventura lungo la strada che dal fiume porta alla città,e dove qualche anno fa i sentieri erano coperti di cadaveri. Quel soldato, ricordo, era più strano delle parole che pronunciava, con i suoi folti baffi e la sua divisa sgargiante,sembrava un angelo giullare che di corte in corte vagava e vendeva le sue fandonie al prezzo di una zuppa calda. Mi raccontò la sua storia sui vagabondi,e da allora io sono disposto a venderla per meno di un tozzo di pane; qualche volta mi chiedo cosa mi direbbe se lo incontrassi oggi,ed ho quasi paura di sottopormi al suo giudizio.
Prendo con la mano l’ultima briciola che mi rimane da mangiare,nel piatto gli spiccioli di un’elemosina ormai dimenticata, che un bambino mi donò la notte di Natale. Il sapore del pane di città è quanto di più disgustoso possa esserci,ma è l’unica cosa che ho,e lo stesso forse sta pensando quella graziosa donna dai capelli bruni che ora passa con un libro di poesie in mano per la via su cui mi affaccio. Persino le guardie smettono di ridere e si fermano a guardarla,ma lei non degna loro di un’occhiata, si gira invece verso di me,e gli angoli della sua bocca si tendono fino a creare,come un demone dal fuoco, un misterioso e glorioso sorriso.
Ogni suo passo si fissa nel candido scorrere del tempo come un momento indistinto e dal significato oscuro, e non appena il suo petto si muove seguendo il respiro ,la magia della mistica visione lascia che lampi silenziosi illuminino il cielo e colpiscano ogni uomo lasciatosi ammaliare da
quell’effimero desiderio che è la certezza d’amare;  poi,quando il passo ed il respiro si esauriscono nei rivoli della notte, la normalità torna sovrana, tacita guardiana di una bellicosa quanto insignificante rivoluzione.
Colpisce anche me la passione,e ,malgrado tenti di nascondermi portando al volto le mani,le pupille sconquassano l’iride nel disperato tentativo di rispondere a quel sorriso. Ben presto,quando ogni resistenza viene facilmente vinta, la forma degli occhi cambia, due leggere lacrime lasciano i propri destini brillare alla luce delle fiaccole, cadono con lentezza quasi da litania sulle mie guance secche e,nonostante la bocca sia paralizzata, la sensazione stessa del sorriso lascia il mio corpo ed arriva a quello di lei, di una donna davanti a questo lurido vagabondo.
Le guardie riprendono a scherzare ed una di loro si avvicina mentre cado come in estasi,fino quando un altro sguardo mi ridesta e mi fa rabbrividire, poi solamente lo sghignazzo e la prepotenza, quando la donna già se ne è andata,e ha voltato l’angolo.
Non è vero che la notte le strade siano deserte: oltre alle guardie si vede,talvolta, passare della gente, ed ognuno racconta la fiaba di una vita che solamente il gelido torpore delle tenebre riesce ad estrarre dalle menti incatenate.
I ladri,che rallentano il passo per non farsi notare e che cercano di nascondere con il tremolio il sudore freddo che scende dal viso. Solitamente tengono sempre una mano dentro il mantello,a protezione del loro bottino,e non fanno altro che sorridere ai gendarmi mostrando vecchi e scoloriti denti d’oro. Eppure mi sembrano così ingenui, e mi accorgo che sono lontani i tempi in cui anche io dilettavo il mio spirito e la mia sofferenza nell’arte del rubare; e se un pallido ricordo sono le botte che mi diede un giorno un capitano di polizia, colpendomi nel petto con un bastone, riesco ancora a rammentare quello strano sentore che il mio corpo provava ogni volta che la rapina si trasformava in fuga:non riuscivo a capire chi mi inseguisse,e mi sembrava di inseguire, come fossi stato uno stupido innamorato che corre per far ritorno dall’amata. A volte avevo voglia di cantare,altre volte urlavo semplicemente ,e quel giovane giocare si esauriva nello spazio di un canale e nel tempo di una semplice percossa.
Tante volte ho rubato e altrettante volte sono stato catturato,per questo oggi mi chiedo come facciano i ladri a farla franca,se non valgono un dito di quello che valevo io allora.
Spesso le guardie li ignorano, lasciano che il sogno di un pezzente diventi realtà, ma è solo un’elemosina, uguale a quella che mi fanno oggi i bambini. Il ladro di strada si accompagna sempre con un cane randagio,che abbaia alla luna e che muore divorato dalla fame e dalla peste.
Piccole servette si lasciano intenerire dalla vista dei cani,e sopportano di essere infettate dai neri bubboni pur di accudirli. A volte scoppia un’epidemia in città,ed è allora che i ladri dovranno subire la vendetta, e la tortura sarà tremenda
Colonne di luridi schiavi attraversano le strade, il loro tanfo è insopportabile e la gente si copre il volto con la veste. Io li osservo solo la notte, quando i loro padroni li lasciano scorrazzare liberi per i quartieri malfamati,ed allora iniziano le orge e i bordelli si riempiono.
La casa chiusa all’angolo della strada ha l’insegna di un fiore primaverile, il custode è un vecchio dalla barba bianca. Mi sta guardando,io guardo lui ed inizia una sfida. So di peccare d’infantilità, ma solamente se riuscirò a sbagliare così tanto da persistere in questa spregevole idiozia potrò vantarmi fra i dannati dell’inferno,quando sarà arrivato il mio momento, di essermi meritato un posto in mezzo a loro.
Passano schiere di giovani vagabondi, dalle loro tasche escono monete d’oro ed il peso della loro testa rasata a zero schiaccia le loro schiene e comprime i polmoni. Respirano l’incenso che esce fuori della moschea, e paiono disorientati dal profumo, abbaiano al suono di un liuto, che un vecchio mercante suona all’angolo della strada. Il mercante mi guarda e mi rivolge un sorriso pieno di disprezzo: a lui racconterei volentieri una delle mie storie, magari proprio quella del mercante di schiavi e del tesoro all’ombra di una palma del deserto. Credo che la potrebbe apprezzare,perché è un uomo di mondo.
All’improvviso il mercante smette di suonare,ed alza lo sguardo come incantato, fissa con occhi arrossati dal pianto la strada dove proprio adesso passa una mezzana. Le sue dita sono indecise fra il premere sul legno dello strumento o lasciarlo andare senza alcuna tensione. Una corda si spezza.
Solo i vecchi sanno soffrire per passione, e solo loro riescono a cogliere nel profondo il senso che il corpo di una donna vuole comunicare. L’esperienza ci insegna a distinguere fra lo sguardo e la parola, fra il pensiero ed il desiderio.
Non resisto alla tentazione ed alzo lo sguardo, rifugiandomi ancora una volta nel mio vecchio e consunto mantello.   
Nel brivido di un istante, tutte le mie riflessioni,annegate in un sospiro, si perdono nel gelo degli occhi vitrei della mezzana, la pupilla illuminata dalle fiaccole riflette sul corpo l’immagine di una donna ,che a stento pareva essere reale. La vedo, e mi accorgo di quanto sia bella, avvolta in un peplo color del mare, le cui pieghe assumono la forma ed i contorni delle onde. Scivola leggera la sua mano sul fianco destro,ed il mio sguardo la segue ammaliato. Tento di cercare i suoi occhi ancora una volta,ma il suo viso è lontano. Soltanto la pura sincerità del suo corpo placa la mia sete d’amore. Provo a pensare quante volte sia passata su questa strada e quanti vecchi vagabondi abbia stregato.
E’ stata l’ultima ad uscire dalla casa chiusa, dopodichè il custode ha sprangato la porta. La donna ha ancora con sé l’odore pesante dolciastro di quel posto,meta di pellegrinaggi quanto un luogo sacro, dimora di riottosi, topaia di dannati che sperano,in un letto sudato,di trovare la strada per la salvezza e per la soddisfazione. Ogni giovane meretrice che esce dal quel posto ha lo stesso sguardo di ghiaccio,gli occhi appena sbarrati, che fanno da contraltare all’inevitabile frustrazione delle loro membra, ferite e sanguinanti, ma ancora disposte a farsi succhiare.
Ad un certo momento,ridestandomi dai miei pensieri, ascolto un gemito, un gemito sussurrato,e mi volto verso il suonatore di liuto, credendolo piangente,poi,trovo la soluzione sempre nella stessa donna, i cui occhi ora provano a sciogliersi. Le lacrime si distinguono appena ,oscurate dal buio, ma la loro presenza si avverte anche solamente con l’anima. Il lungo vestito azzurro si stringe attorno al corpo,che di colpo si irrigidisce, i capelli neri si muovono per un attimo con una folata di vento, ed il pianto ricomincia, ancora più forte.
Mi alzo un poco allora, e mi concentro nell’ascoltare: nel suono di quel gemito mi pare di sentire l’intera città, addormentata nella notte fredda, vittima delle sue delusioni e dei suoi brutali istinti.
Il gelo si è fatto più pressante e i respiri, uscendo dalla mia bocca, si condensano dando forma a vere e proprie nuvole di fumo, presto dissolte nell’aria. La mezzana,a passo lento, lascia la via e devia,risvegliando l’attenzione delle due guardie,che,una volta che lei è passata, esprimono il loro biasimo bigotto in una semplice battuta,poi riprendono a scherzare. La guardia più giovane ha nella cintura un coltello, spesso lo tira fuori dalla custodia in pelle e si diverte a palpeggiarlo con le dita,cercando i suoi riflessi d’argento e di terrore,per lui passione accecante. Qualche volta punta il coltello dalla mia parte,come per intimorirmi, ma sono troppo stanco per dargli soddisfazione. Il vecchio che suonava ha posato lo strumento ed ora è addormentato,con la bocca aperta rivolta verso il cielo. Ha un aspetto orribile,ma mi incuriosisce; vorrei conoscere la sua storia,vorrei che mi cantasse una canzone, un qualche antico canto popolare,scritto magari da un ragazzo di strada in un bordello poco prima di essere accoltellato.
Le musiche che riempiono i teatri e le locande alla sera non mi danno l’impressione di essere vere. Una volta conobbi un pescatore,che scriveva ballate con l’armonica in riva ad un fiume,in attesa che qualche pesciolino malcapitato abboccasse alla sua misera esca. Diceva di scrivere canzoni per passare il tempo, perché la noia gli faceva nascere dentro la tristezza. Non ho mai sentito nessuno suonare come lui e, dal giorno in cui mi salutò per partire verso ovest su di una barca rattoppata,ancora aspetto di ascoltare di nuovo le sue canzoni. Ora l’unica musica che sento è lo strano e disperato miagolare di un gatto,accasciato sopra la bancarella di un verduraio,completamente vuota. Di giorno il brulicare di vita vicino ai negozi è incredibile, gli odori acri di spezie e di carni frollate, di verdure colorate o di frutta fin troppo matura stimolano la fantasia,oltre che l’appetito, dei passanti. In ogni negozio o bazar c’è qualche animale, che spesso è un cane o un gatto. Loro restano anche la notte,abbandonati dai loro padroni, e le scorribande in cerca di qualche avanzo di cibo sono la paura di ogni mendicante.
Stasera però il mio piatto è pieno di polvere mista alle lacrime e al sangue, ed allora posso guardare senza timore che qualcuno disturbi la mia quiete. Il gatto avverte quando c’è un nemico nelle vicinanze e,veloce come un fulmine, scappa lontano. Ora che con il suo grido felino sta fuggendo,vedo passare il cane che lo insegue, ma è troppo lento, non lo raggiungerà mai. Un pianto indistinto risponde all’abbaiare insistito del cane: probabilmente è un bambina,che vive nelle case verso la fine della strada. Le famiglie che abitano lì sono tutte di operai o di stranieri, il cui digiuno più che una penitenza è una necessità. I loro figli hanno sempre vestiti stretti, cuciti dalle madri mettendo insieme qualche vecchio straccio.
Prego per quella bambina, il suo pianto si placa,ma domani mattina sono sicuro che ricomincerà.
Le risate delle due guardie sono più lontane, forse hanno voltato l’angolo anche loro, stanchi di dover sopportare la presenza di un pezzente. Il vecchio addormentato sulle seggiola pare morto e quasi mi fa paura. Il freddo è sempre più intenso ed allora capisco che deve essere veramente tardi. Qualche fiaccola comincia a spegnersi,ma la strada rimarrà ancora viva,almeno per qualche minuto.
Vedo passare un’altra guardia,disarmata, che mi scruta senza proferire parola. Di tanto in tanto gruppi di due o tre ragazzi,che a stento si reggono in piedi, attraversano lentamente la strada, e,vedendo attraverso il portico la mia faccia,sorridono disordinatamente.
Qualcuno di loro forse,stanotte morirà, per colpa sua o per colpa d’altri,ma in fondo sono cose che succedono,e per cui non scomodo più nemmeno la mia pietà.
In un attimo sento arrivare da lontano un cigolio,che diventa sempre più forte,poi più niente.
Ogni notte arriva il momento di essere soli,e bisogna prepararsi non ad affrontarlo, quanto ad accettarlo. Sarà per il freddo che mi apre le ferite,o per la malinconia che si respira stanotte,ma non riesco a prendere sonno e, se provo a chiudere gli occhi,sento solamente l’attesa divenire sempre più insostenibile. Sono costretto a guardare questa via e quel vecchio a bocca aperta,finché lo schifo di questo posto convincerà il mio corpo a dormire. Una lacrima scende dai miei occhi e bagna la mia mano, che d’un tratto si stringe forte fino a fare male. E’ tutta la vita che aspetto ,ed il mattino è ancora lontano.  

lunedì 4 marzo 2013

Un'immaginazione


Un’immaginazione

Però l’Africa è un’immaginazione. E’ il tramonto biblico del Nilo, sulle cui acque basse, vicino alla riva, un padre e un figlio, forse in fuga, camminano, seguendo il corso del fiume. La storia di quegli uomini è l’Africa, ma l’Africa non esiste, è un sogno. C’era una volta un regno, ma ora non più. Le parole ancora dolci della millenaria fiaba scorrono lente sul Nilo, rinfrescato dalle frasche mosse dal vento ai lati dei suoi argini. Gli uomini camminano, ma il loro viaggio pare non avere meta. Scappano dalla povertà che tiene in braccio il continente, scappano dalla falsa libertà o dal falso progresso di molti regimi. Si chiedono come il presente possa cambiare. Guardano al passato. La storia è il loro unico conforto. C’è stato un tempo in cui l’Africa era grande ed ha allevato gli uomini, ha permesso che crescessero e che imparassero a vivere, li ha ospitati nelle verdi valli che adesso si chiamano Sahara, ma verdi non sono.
I templi dei faraoni guardano distratti il cammino dei due. A tratti il più giovane dei due, il figlio, alza lo sguardo al cielo, si asciuga il sudore dalla fronte, porta un passo avanti e sogna della gloria di Menfi o di Tebe che non ha letto sui libri di scuola, perché a scuola magari non ci va nemmeno, ma sui versi in rima della sua fantasia. Vorrebbe riprenderselo il passato, ma da solo non sa se può farcela. Quando il letto del fiume si restringe, i due uomini lo abbandonano. Sono ormai nell’alto Egitto. Lungo l’acqua una barca a motore arriva veloce. Sono stranieri, ma non hanno la faccia cattiva dei mercanti d’Europa o d’America. Portano sacchi di cibo e parole nella testa da insegnare ai bambini. <<Siamo qui per aiutarvi>> dicono mentre costruiscono una scuola , regalano ai due un portafortuna: un ciondolo di Iside. <<Anche noi possiamo aiutarvi, con tutto quello che abbiamo>> dice il giovane <<Ma solo quando voi lo capirete potremo farlo per davvero>>. Camminano.  Fuori dal fiume c’è ancora il deserto. La sabbia mormora, mossa dal vento, ulula piano solitaria sotto i loro passi che affondano nel cuore delle dune.
C’è un’oasi, in mezzo alla notte, nel buio. L’aria che sfiora le palme le fa vibrare come un flauto. Quando Allah ha voluto scrivere le Mille e una Notte forse lo ha fatto lì. Padre e figlio si siedono, una polla d’acqua davanti a loro, un dattero fra le mani. <<Ti manca tua madre?>> chiede uno, l’altro scuote la testa, sforzandosi di mentire. Si rialzano e nel cammino le lacrime si seccano ancor prima di scendere dagli occhi. Il loro sogno dura ancora, così come la sabbia, che sembra non finire mai. Ad un certo punto però finisce anche quella. L’inferno di Dio ,che spacca la roccia fino a farla diventare sabbia, cede pian piano il passo a qualche baobab sparso, a qualche pozzanghera ereditata dalla pioggia. Gli animali vi si abbeverano, anche i due uomini, affaticati dalla traversata del deserto. Aspettano che i leoni se ne vadano e si avvicinano all’acqua senza far rumore. Bevono a piccoli sorsi, si sorridono l’uno con l’altro, ma non sanno ancora perché sono lì. Loro due,persi in mezzo alla savana, guardano sulla linea tremolante dell’orizzonte le fronde della foresta pluviale che si alzano, e nascondono genocidi, lotte fra tribù, e uomini che firmano col sangue degli altri qualunque cosa. Finire fra quei massacri fa paura a tutti, anche a due fuggiaschi senza speranza. Il buio della giungla nasconde l’odore della morte, così e più facile da ignorare. Un gruppo di bianchi, bianchi come il latte, costruisce una capanna in un villaggio. Alcuni sono bianchi anche nei vestiti. Sembrano dottori. Loro due si fermano, e guardano. C’è chi il sangue non lo usa solo per firmare, ma anche per curare. Sono grati ai dottori stranieri. <<Con le vostre armi ci ammazzate, con il vostro sangue ci curate>> dice il giovane <<Ci curereste ancor di più portando scuole e sogni dai vostri paesi, invece che mitraglie>> La terra rossa s’alza mossa dal vento. Caldo. 
Se ne vanno ancora. Fermi non possono stare. Fra le radure a macchia strette fra la foresta, le piogge, i laghi dimore di fenicotteri e le mandrie in corsa per la vita, c’è un vulcano, su cui si dice sia nascosto il tesoro del figlio di re Salomone. E’ un vulcano strambo, è il vulcano dell’Africa. E’ coperto dalla neve. Il padre indica al figlio la grande montagna bianca. Anche se non hanno letto Hemingway, sono comunque muti di fronte alle nevi del Kilimangiaro. Si chiedono se il gelo serafico di quella cima, che resiste al bollore delle viscere dentro di sé, potrà invadere tutto il continente un giorno. E’ un mondo in rivolta, è un mondo in fuga da se stesso, come loro due, contadini o pescatori od operai abituati a vedere il proprio sudore cadere per terra e formare rigagnoli sulla sabbia. Si siedono per riposarsi. Hanno viaggiato tanto e intorno a loro c’è ancora solo sabbia. Un nuovo deserto, uno dei tanti, ma questa volta il caldo è alleviato e lascia spuntare sulla bocca un sorriso. Stesi fra le dune del Namib, hanno alle spalle la sabbia e davanti il mare. Il blu quasi acceca, il freddo dell’acqua scorre sotto la terra. Il tutto e il nulla, l’infinitamente arido e l’infinitamente umido che si toccano, si abbracciano ,pare quasi che si amino. E’ l’amore per l’Africa. Con lo stesso amore gli stranieri costruiscono le capanne nei villaggi, o curano un’infezione, o semplicemente partono, ma non per fotografare i leoni da dietro il vetro di una jeep. Partono per l’Africa. Non bisogna per forza nascere in Africa per essere africani: serve tornare col pensiero al momento primordiale della nascita di un uomo. Serve sorridere d’amore per il miracolo della concordia che si realizza fra due sguardi, mentre ,insieme, guardano al sole e pensano al domani.
Quell’amore rende fertile la terra, anche quando è deserto e, davanti agli occhi dei due uomini, fa nascere un giardino. Fiorisce il Gelsomino ed alzano la testa le palme sulle sponde del Nilo. Forse i templi dei faraoni non potranno più essere così indifferenti, chiusi nel mito della forza di ieri. C’è una famiglia spezzata in riva al mare, lungo il deserto. Sono padre e figlio, senza nulla con cui vivere. Quando davvero il mondo crederà nell’Africa darà lei non solo l’amore dei volontari e missionari. Darà la speranza di vivere in un paese libero, dove libero è il lavoro. Ma la Speranza muore se non c’è nessuno a tenderle la mano. Sorridono , perché sono ancora vivi. Quell’immaginazione che chiamano Africa è talmente vera da rimanere stupefatti. Nell’attimo della contraddizione deserto-mare vedono lo spruzzo di una balena alzare una colonna d’acqua azzurra nel cielo grigio della mattina. Freddo. Il loro è stato un viaggio nel sogno, fra gli alberi in cui sono nati, milioni di anni prima, i loro genitori. E’ forse quell’eredità comune che li fa sentire uguali,che chiede d’essere condivisa con il mondo per una nuova civiltà.
<<Però l’Africa è un’immaginazione>> dice il padre socchiudendo gli occhi. Bello farla diventare realtà.