domenica 13 ottobre 2013

Primo scrutinio

Primo scrutinio:
18 aprile

Mi dicono fuori ci sia il sole. Gli altri escono. Io no. E non per senso del dovere. Sono appoggiato da dieci minuti ai bordi della scalinata. Passata la mia ultima ora a leggere di sport seduto al mio seggio, ho deciso di fare due passi. Prima della chiama. Mi sono stancato di tutto quell’amaranto. E’ una cosa che sto imparando a poco a poco. Prendere confidenza con questo posto. Mi avevano detto, al partito, “sarà un lavoro come un altro, non essere nervoso” ma era servito a poco. Ora sono di nuovo dentro all’aula. Lovati è appena uscito dalla cabina. Alzo lo sguardo sullo schermo. Mabelli, Macherio, Mannini, Marchini. Ancora tre e poi è il mio turno. Oggi non se ne farà niente. Ancora tutti a discuterne. Io ho deciso di votare per Dante Alighieri. All’inizio non volevo, poi ne ho parlato, così, per scherzare, con un collega, e lui mi ha rassicurato. “Io sette anni fa al primo scrutinio votai Topolino” mi ha detto ed io ho sorriso. Non parlo molto. Non parlavo molto prima, ma da quando sono qui dentro parlo ancora meno. Parlo poco con i miei vicini di seggio, poco con i compagni del partito. Per niente con gli altri. Oggi,alla buvette, è venuto il vicesegretario e mi ha detto “ragazzo ti vedo troppo spaesato, devi ambientarti di più”. Io ho annuito ,ma lui ha capito subito che non sapevo come fare. Ad attaccare bottone, qui dentro, non ci vuole nulla. Anche in fila per prendere il caffè puoi scambiare due chiacchiere con chi ti sta a fianco. Qualcuno ci prova con le ragazze più giovani. Butta lì qualche frase un po’ sorniona e poi se ne va sorridendo e lasciando un caffè e un cornetto già pagati. In consiglio comunale avevamo la macchinetta delle bevande fuori dalla sala e se si veniva fuori da una seduta un po’ agitata alcuni continuavano a litigare su chi ci fosse davanti e dietro in fila. Io cedevo sempre il mio posto volentieri. Ci mettevo mezz’ora per prendere il caffè. A volte infilavo la moneta e poi era finito. Qui è tutto così immenso che ti senti importante anche se non lo sei. Io non valgo nulla, e lo so. Far politica mi piace. E’ la mia passione. Ma sono stato messo in lista grazie al nostro segretario in regione, che mi conosce da quando era sindaco nel mio paese, e ha proposto il mio nome alla dirigenza. Uno dei candidati per svecchiare un po’ le liste. Quando lo sono andato a trovare in ufficio per ringraziarlo di avermi proposto, mi ha sorriso e mi ha detto “ho tanta fiducia in te, ragazzo, hai delle buone idee e secondo me puoi far carriera nel partito, però, ricordati, è la tua prima volta, se vuoi avere un futuro, evita di fare stronzate”. Era sincero quando me l’ha detto. Non c’era malizia. Fare stronzate significa voler farsi notare a tutti a costi. Quindi alzare la mano alla riunione del gruppo e dire che magari tu quella cosa la vorresti fare in un altro modo. Quindi votare in dissenso rispetto al gruppo. Quindi rilasciare dichiarazioni alla stampa con troppa frequenza e troppo frequentemente a briglia sciolta. Ognuno ha le sue idee, ma ,per quanto belle possano essere, quando hai ventisette anni e vieni eletto qui dentro , puoi permetterti di farle sapere in giro solo fino a un certo punto. Per ora stai zitto. Poi, dicono loro, se sei intelligente capirai il momento giusto per iniziare a parlare.
Io forse ho esagerato col senso del dovere. Sono rimasto chiuso dentro l’aula per praticamente tutto il tempo della chiama. E, dopo aver votato, sono sicuro che al massimo mi concederò una passeggiata. E mai fuori. Fuori, non so perché, mi sento quasi un traditore.
Macherio, Mannini, Marchini, Margiotta. Uno di meno. Il mio turno si avvicina. Guardo Macherio che entra. Mannini aspetta poco lontano da lui. E Margiotta? Chi è Margiotta? Gli altri due li conosco, li ho visti alle riunioni del gruppo. Margiotta mai. Sarà di un altro partito. Mi guardo attorno. Fra i gruppi di tre o quattro che stanno parlando fra loro, l’unica che aspetta è una ragazza. Avrà la mia età. Forse anche un paio di anni in meno. Sarà lei Margiotta? Mi viene su una curiosità incredibile. Anche perché, devo dire, lei è carina. Forse il tailleur verde scuro me la fa sembrare migliore di quel che è…ma no, no, la guardo in faccia spostandomi un po’ di lato e confermo che è carina davvero. Mi chiamano. Marchini. Prendo in mano il foglio dal commesso. Entro nella cabina. Scrivo velocemente “Dante Alighieri”. Piego il foglietto ed esco di fretta.  Voglio aspettarla all’uscita. Per vedere se è lei. Quando infilo il foglio ripiegato nell’urna di vimini alzo gli occhi e sul tabellone Margiotta già non c’è più. In quel momento , dalla cabina a fianco della mia, esce. Avevo ragione. E’ lei Margiotta. Ha votato velocissima. Scheda bianca, sicuramente. Mentre la guardo passare e alzare il braccio per salutare una collega della sua stessa età, inizio a pensare. Quali sono i partiti che hanno detto di votare scheda bianca, a parte il mio? Tutti tranne uno. Ok, quindi per sapere di che partito è glielo dovrò chiedere. Questo equivale a dire che non lo saprò mai. Chi ha il coraggio di chiederglielo? Sta ancora parlando con la sua amica. Devono conoscersi da tempo. Secondo me parlano di gossip. Lei ha la faccia di una da gossip. Margiotta. Ora viene raggiunta da un’altra donna, appena un po’ più anziana. Quest’altra la conosco, e se Margiotta è una sua collega i miei dubbi sul partito di provenienza sono spariti. Maledizione, è proprio quello che sopporto di meno. Ora posso dire che sarà praticamente impossibile parlare con lei. Mi verrebbe da prenderla a schiaffi. E’ tutto molto innaturale. Alla prossima votazione, o al massimo domani, dovrò votare un nome per un presidente condiviso dalla maggior parte delle forze politiche. Condiviso anche dal suo partito. Ma questo, almeno adesso, non mi crea molti problemi. Forse perché è una cosa lontana. E’ un nome scritto a penna su un foglio. Forse perché se lo farò sarà perché me lo hanno detto, ed io sono qui anzitutto per non fare stronzate, se voglio avere un futuro. Ma qui è diverso. Qui si parla di una persona in carne ed ossa che crede in qualcosa che io ho sempre disprezzato. Sin dall’adolescenza. Credo si capisca, è una cosa molto più umana. Carnale. Fisica. Ci si guarda e si pensa “sei proprio una cretina”. Magari lei penserebbe lo stesso di me. Oppure no?

Guardo l’orologio e mi dico che ho fame. Potrei rimanere a mangiare qui dentro, ma mi ero ripromesso di concedermi una passeggiata,pur breve. Salgo al mio seggio, prendo il giornale e mi avvio verso l’uscita. Saluto un paio di colleghi. Mi invitano a mangiare con loro. Mento dicendo che sono già impegnato. Appena fuori chiamerò mia madre. E’ in pensiero, non mi sente da due giorni. Sono grande e grosso ma lei si preoccupa sempre. Crescendo in un paese relativamente piccolo, vicino a città relativamente piccole, non si riesce ad apprezzare in pieno la grandezza del caos che comunica Roma. Oggi però fa caldo e la gente è a casa a mangiare. Un giorno come tanti. Qualche passante mi vede uscire dal palazzo e rimane un attimo a guardarmi. Io cambiò strada e mi infilo in vicoli che conosco da troppo poco tempo e mi ci potrei anche perdere. Spero di trovare una trattoria che mi faccia una buona carbonara. Poi di corsa al palazzo. Di nuovo dentro. Ad aspettare.

A volte(purtroppo) ritornano

In realtà non sono chi credete. Facciamo finta che sia venuto dal futuro. Tipo dal 2039. Dopo aver ucciso un uomo ho trovato nella tasca della sua giacca un indirizzo email ed una password. Ho allora scoperto questo blog abbandonato e ho deciso di appropiarmene. Perchè l'ho fatto? Ma è ovvio, perchè non ho nient'altro da fare. E' dura la vita nel futuro, ma ci sarà tempo per raccontarlo. Preferisco partire dall'ora: dunque credo che questo idiota abbia lasciato inattivo questo blog per diversi mesi. Come al solito: iniziano che vogliono diventare dei fenomeni e si stancano dopo poco tempo. Beh, qui arrivo io. Sto pensando di prendere le sembianze(ma soprattutto il nome) di questa fantomatica donnola e diffondere il mio verbo per quei quattro disperati che ancora stanno appresso a queste pagine. Lo so lo so, ci sono tante domande, a partire da :ma cosa è accaduto alla vera Donnola? Non lo so, ma posso scoprirlo. Posso seguire le tracce di sangue che ho trovato sulla sua tastiera. Portano ad un biglietto con alcuni strani numeri scritti sopra. Il loro significato mi è oscuro. Ma non c'è tempo da perdere: il destino chiama e devo ancora obliterare il biglietto. L'ultima volta mi hanno beccato e non sai che casino con il controllore. Quindi si ricomincia, senza troppe spiegazioni.  

sabato 4 maggio 2013

L'uomo della pizza V


Incontrò Cherie il giorno dopo, sulle scale mentre scendeva. “Perché non vieni mai a casa mia?” gli chiese, “Sono sempre stanco quando torno, scusa” ,”Non ti credo”, “No, è vero, te lo giuro, sono stanco”, “Se ti invitassi di giorno verresti?”, “Vediamo, oggi devo uscire, un’altra volta, vediamo”. Sceso giù, tolse la catena del motorino, trascinò a piedi il motorino fino alla strada, alzo lo sguardo verso le finestre del palazzo. “Bob! Ehi Bob!”, “Che vuoi?” chiese Bob affacciandosi trafelato alla finestra. “Vieni, facciamo un giro”, “Sul serio?”, Johnny annuì. Nemmeno un minuto dopo Bob era già seduto dietro al motorino, Johnny era pronto per mettere in moto. “Attento che sei senza casco” lo mise in guardia, ma Bob era già perso ad ascoltare il rumore dell’aria sulla sua pelle, sui capelli. Passarono vicino alle solite case, poi uscirono dalla città, attraversarono i quartieri di periferia, dove a grandi spiazzi d’erba si alternavano palazzi decrepiti, qualche villa abbandonata, negozi sparsi qua e là.
“L’ultima volta che sono salito su un motorino non andavo ancora all’università” fece Bob, “Perchè non ci sei andato più?”, “Quella volta l’ho rotto, era di un amico che si è incazzato come una belva, l’ha raccontato ai miei che mi hanno fatto un cuore così, mi sono dimenticato dei motorini, solo treno e automobili, guidate da altri però”, “Ah, allora fuggi le responsabilità” chiese Johnny, “Non dire boiate, guarda” Guarda quella… che bomba”, “Non l’ho vista”, “Bravo bravo, pensa a guidare che alle donne ci penso io”, “Va all’inferno Bob”. Erano ora nel nulla più totale, solo caseggiati abbandonati, prati a perdita d’occhio. “Che periferie insignificanti” fece Bob ,”dì un po’ Johnny” continuò “lavori ancora come cameriere in quel localaccio…non so come si chiama”. “Mi sono licenziato già da una settimana, ho raccattato qualche soldo, ma non ne potevo veramente più”, “Certo che tu sei proprio strano: ti licenzi da cameriere e preferisci girare a portare le pizze alla gente, bah”, “Tu non capisci Bob, a me piace girare, voglio vedere la città di notte ,e poi posso vedere un sacco di gente, sono una specie di buona novella, porto la cena al posto della salvezza, più o meno siamo lì. Io non sono un fattorino qualunque, sono l’uomo delle pizze, mi capisci?”
“Devo mandarti al diavolo adesso o preferisci dopo? Per te consegnare pizze ti eleva moralmente, ma fammi il piacere; dovresti studiare, fare gli esami, prenderti un pezzo di carta, visitare paesi, devi farti una cultura Johnny,come me, io sì che sono degno di rispetto”
“Ora stai zitto che nella vita non hai combinato molto, davvero, quindi non puoi parlare. Credi che io non potessi studiare? Certo che potevo, andavo pure bene a scuola”. “D’accordo” rispose Bob “io sono l’uomo del poteva fare di più ,ma tu? Perché hai smesso di studiare?”
“Niente di interessante Bob, mi sono svegliato un giorno ed ho parlato con me stesso, mi sono accorto che non sapevo fare nulla. E’ stato un momento davvero brutto Bob, credimi, però era vero: non posso risolverti un’equazione, né scriverti una poesia né parlarti di filosofia, non so aggiustare un rubinetto né cucinare, faccio fatica anche a cambiare una lampadina, non so parlare con la gente, non posso essere un amico, e nemmeno un nemico. Per me era inutile continuare, ma non sono arrabbiato. Io non ho chiesto niente di tutto questo, è semplicemente quello che ho, e per me essere qui è la cosa più importante. Tu invece, piuttosto che fare il cretino e piangerti addosso, potevi farci qualcosa di più con una laurea in legge che pulirtici il sedere, e poi la lasci appesa per un chiodo in quella fogna che ti ritrovi come casa. Io forse sto peggio di te, e non mi lamento, e tu…vabbè scusa Bob, sto dicendo cose senza senso, scusa, non volevo dire…”, “Hai ragione Johnny, e comunque le ultime parole non le ho sentite, c’è troppo vento, accelera adesso,voglio sentirmelo ancora più addosso”. Johnny accelerò, si trovavano su uno stradone sterrato fuori dalla città,accanto a tubi di scarico e ruscelli inquinati, in lontananza i profili delle fabbriche. “Questa sera secondo me ti ricapita l’ordinazione dall’avvocato” disse Bob reggendosi alle spalle di Johnny. “Speriamo di no, non vorrei ribeccarlo con quella sua amante, prima o poi mi verrà voglia di dirlo alla moglie”, “Perché conosci la moglie”, “No,dicevo per dire, e comunque una volta l’ho vista, era con lui in casa, l’amante non c’era però”, “Ci mancherebbe Johnny”. “Ehi, aspetta Johnny, aspetta! Ferma! Fermati qui, un attimo”, “Che c’è?”, “Fermati”. Bob scese dal motorino, i suoi capelli erano tutti scompigliati dal vento, si fermò in mezzo alla radura. “Ecco, guarda qui, deserto assoluto”, “Mi hai fatto fermare solo per vedere l‘erba qui intorno?”, “Non ti piace, non ti affascina?”, Johnny ristette, “Beh, forse un po’ ,si è bello ,ma che c’entra?”. “Dì un po’ Johnny, se potessi andar via da qui dove andresti?” chiese Bob mentre camminava con il viso verso l’orizzonte sperduto. “Non saprei, mio zio vive in Brasile, mi scrive qualche volta, ci pensavo spesso ad andare da lui, poi ho scoperto che una pizzeria ed allora ho preferito tenermi alla larga”. Bob era incredulo “Che stai dicendo Johnny? Tuo zio vive in Brasile e tu non ci vai?”, “Se devo fare il fattorino preferisco farlo qui!”, “Ma che c’entra Johnny, si tratta di scappare via, e poi lo hai detto tu che ti piace consegnare le pizze”, “Non saprei che fare in Brasile Bob, come faccio a presentarmi da lui improvvisamente!” ,Bob si allontanò ,”Mamma mia Johnny non posso più sentire queste teorie dell’altro mondo, non riesco proprio a capirti, fossi al posto tuo raccatterei tutti i fottuti soldi che ho per casa e fuggirei, capito? Fuggire! Andare via!”; Bob si fermò a guardare l’orizzonte, Johnny lo osservava da lontano, appoggiato al motorino: che avrebbe fatto in senza il suo motorino, in Brasile, da solo? Non se l’era mai sentita, avrebbe perso per sempre la possibilità di vedere le facce dei fedifraghi e dei figli di puttana a cui portava da mangiare; si, forse c’erano anche in Brasile, ma gli piacevano di più quelli di casa sua, gli sembravano più simpatici, più interessanti, e poi, non avrebbe più rivisto Martha. Ci pensò solo allora, mentre si chinò a cogliere qualche filo d’erba secca, e se li passo da una mano all’altra: pochi giorni erano passati da quando l’aveva vista per la prima volta, eppure ne era attirato in un modo diverso.
“Forse ci penserò Bob, prima però dovrei sistemare alcune cose”, “Che cosa? Quella tizia a cui hai consegnato la pizza? Oppure ti sei deciso a farti Cherie, e ti assicuro che lei ne sarebbe felice, le sei simpatico”, “Basta idiozie Bob per favore”, “Non sono idiozie, sono cose serie” ,”Guarda che ti lascio qui a piedi”, “D’accordo, sto zitto, meglio ripartire, metti in moto”. Bob montò su, abbandonarono ben presto quella desolata distesa. “Ti va di fermarti al bar, così sfottiamo un po’ la cameriera”, “No, Bob, devo passare a mettere benzina, però ti posso lasciare lì davanti” Bob annuì senza aggiungere altro. 

sabato 27 aprile 2013

L'uomo della pizza IV


Johnny continuò a camminare, a testa bassa, guardava il marciapiede sporco sotto di sé, gli capitava di salutare qualche vagabondo che dormiva vicino ad un cassonetto,sorrideva, poi passava oltre, un po’ facevano paura anche a lui. Non si ricordava bene quale traversa fosse,poi riconobbe da lontano il profilo dei palazzi, si avvicinò, trovò la strada giusta, ottavo piano,ma la finestra era chiusa,la serranda abbassata, forse non c’è ,pensò Johnny,meglio andarsene, qui sono fuori posto. Rifece la stessa strada, sudava acqua come fosse una fontana, ripensò mille volte a quel viso, Martha Damber e la bambina. Magari un giorno potrò venire qui presto, potrò seguirla, ma no, che sto pensando, lasciamo perdere, dimentichiamo.
Quando il lunedì uscì di casa non se la era dimenticata affatto, e nemmeno la sgradita visita del padrone di casa che gli sollecitava il pagamento della rata di affitto lo riuscì a smuovere dalla sua fantasia. Non appena il padrone se ne fu andato gli si avvicinò Bob, “Viviamo come topi e dobbiamo anche pagarlo, bisognerebbe portarlo in tribunale… roba da far drizzare i capelli”, “Si bravo Bob, portalo in tribunale, come in quel film…non mi ricordo come si chiama… ma va, torna a casa e passa una buona serata, no, non mi seguire che tanto non te lo faccio provare il motorino”.
Arrivò alla pizzeria, la lista delle ordinazioni era più lunga del previsto, la pila delle pizze anche, dovettero montare sul posto un baule più grande dietro al motorino. Johnny aveva le mani sporche di grasso, ma non aveva tempo di lavarsi, il pizzaiolo gli diede un paio di guanti. “In settembre?”, “Mettiteli e non rompere, se porti le pizze con quelle mani luride ti cacceranno a calci nel di dietro” gli disse. Partì e subito le sue vecchie conoscenze si ripresentarono: la cameriera depressa lo accolse con una maschera per il viso dal colore violaceo, gli diede una mancia sostanziosa per un calzone con formaggio e prosciutto, un ragazzo dal viso sciupato e dagli occhi incavati aprì la porta con mani tremanti. “Quanto?”, “Sette e cinquanta”, “Tanto, tanto,troppo, un attimo ,aspetta qui, che pizza è?” Johnny vide tante ferite sulle braccia, poi gli si avvicinò una ragazza, capelli corti rossi, segni sulle braccia anche lei, occhi incavati. Mise i soldi nella sua mano, “Ecco, pagato, vai,grazie” Gli sbatterono la porta in faccia. Johnny se ne andò indifferente: una volta gli eroinomani erano più educati, pagavano anche qualcosa in più. Il prossimo chi è: Mc Bride, ancora lui, cazzo, o gli piace davvero la pizza oppure ha in programma un’altra serata a luci rosse. Arrivò con leggero ritardo al suo condominio, fece in tempo a vedere tre ragazze in minigonna prendere le scale e salire su. Attese un po’, non era il caso di rompere le scatole, in fondo erano fatti suoi. Quando salì lo trovò in mutande e camicia, pagò subito. “Grazie, grazie, ma quanto è buona questa pizza?” disse McBride, “La ringraziamo per la sua fedeltà” rispose Johnny, “grazie a lei e alla sua famiglia” . McBride sorrise, liquidò Johnny e chiuse la porta. Mentre scendeva le scale gli venne un pensiero assurdo: possibile che fosse sempre così inopportuno? Possibile che dovesse capitare a casa dei clienti proprio durante le loro orge preserali o i loro festini, e poi ,diavolo, queste persone non lavoravano: direttori di banca ,avvocati ,medici, potrebbero impegnarsi un po’ di più nel loro mestiere invece di farmi fare figure da scemo quando gli porto le pizze. Altri giri, per tutta la città, l’ultima consegna lo attendeva che erano già le dieci e mezza, ritardo stratosferico. Martha Damber, ancora, anche a lei deve piacere la pizza, sul serio perché con una bambina a casa non potrebbe permettersi festini. Non era così infatti: la solita graziosa creatura con le trecce gli aprì la porta, poi arrivò la madre, sempre con lo stesso vestito, questa volta aveva un paio di occhiali ed un librone in mano, lo poggiò su di un vecchio divano, prese la borsa, tirò fuori i soldi, gli diede a Johnny. Lui li prese, e già stava per chiudersi la porta quando non capì più niente. “Aspettate, è troppo,sono solo sette”; “Ma.. l’ultima volta erano sette e cinquanta” ,”Abbiamo diminuito, ecco, tenete,arrivederci e scusate per il ritardo”, “Non vi preoccupate, avrete trovato traffico”. Johnny inspirò profondamente, “Già ,un pochino”. Martha gli sorrise, alzò la mano per salutarlo, la bambina fece lo stesso. “Come si chiama?” chiese Johnny, “Barbara”, “Barbara” ripeté Johnny, “Ciao”.
Quella sera dovette anche consegnare cinquanta centesimi di tasca sua per coprire quella scemata che aveva fatto con Martha, a mezzanotte passata finì di rimontare il vecchio baule dietro il motorino, si mise in cammino per tornare a casa. Girava per la città ,ed il suono di quel vecchio macinino riempiva l’aria, come musica jazz di un fumoso locale. Era uno sghembo ritmo ronzante, persino divertente se ascoltato con la giusta predisposizione. Questo motorino ha visto poche volte la luce del giorno, pensò Johnny, domani lo porto a fare un giro, voglio fargli vedere com’è la città deserta all’ora di pranzo, tanto domani il pranzo lo salto. Si fermò in un chiosco di panini, comprò un hot dog senza condimento, lo mangiò velocemente, poi ripartì. Faceva quasi sempre così per cena. A casa si fece una doccia, l’acqua gelata gli rinfrescò le idee. Guarda, pensò, a qualcosa serve non avere l’acqua calda. Si sdraiò sul materasso, tornò a leggere il manuale di legge, era arrivato a pagina cento. Dopo poco Bob bussò alla porta: “Ti va di scendere da Cherie?”, “No Bob, ti ho già detto che da quella non ci vengo”, “Dai, non fare il lupo solitario, neanche fosse una puttana”, “L’hai detto tu Bob”, “Bè, se la pensi così, comunque non sai che ti perdi”, “Dici sempre così”, “Ma si può sapere che fai la sera?”, “Sto leggendo il tuo manuale di procedura civile”, Bob rise, “Ah ,bravo, una delle più grande palle che la storia dell’umanità abbia mai prodotto, l’ho studiato per non so quanto,come è finito lì scusa?”, “Non lo so Bob, come ti andò l’esame?”, “Promosso, che domande,non mi ricordo il voto però” “E’ interessante” fece Johnny “qualche volta dovremmo parlarne insieme, di diritto dico”, “Va bene, ma solo se mi fai…”, “Vaffanculo Bob, no! Il motorino non lo tocchi!”, “Allora scordatelo!”. Bob se ne andò,ed era incazzato, Johnny continuò a leggere, non riusciva proprio a farsela piacere quella Cherie, era davvero una puttana ,e a lui quelle non erano mai piaciute. Era anche carina,aveva dei begli occhi azzurri, capelli biondastri, ma…no, non gli andava proprio di diventare suo amico. Erano più di due anni che abitava sotto di lui e ancora non l’aveva toccata una volta; beh Johnny a dir la verità non aveva mai toccato nessuna.
Chiuse il libro a pagina cento venticinque, spense la luce, era ora di dormire: lo stomaco brontolava, ma la testa era già altrove.

sabato 20 aprile 2013

L'uomo della pizza III


Il pizzaiolo era appoggiato alla porta aperta della pizzeria, dentro era tutto spento tranne una lampadina alla cassa, aspettava la consegna dei soldi. “Quarantacinque” fece Johnny porgendogli le banconote. “Bene, bene, bravo, ci vediamo lunedì”, e fece per rientrare. “Ehi” disse Johnny, “scusatemi”, “Che c’è?”, “Oggi sarebbe sabato, sa…la paga…settimanale”. “Ah,si ,si, vieni, ecco, un attimo che apro la cassa e metto i soldi dentro, entra. Allora,sono dieci ,tieni”; “Scusatemi ancora, ma di solito…”, “si ,si di solito sono quindici ma questa settimana sono andato male, davvero male, quindi, questo è il massimo,scusa e adesso vai però. Ciao”. “D’accordo, scusatemi di nuovo, arrivederci”. Ripartì con un biglietto da dieci in tasca, poco male, per una settimana basteranno. Faceva un po’ di dispiacere, ma capitava talmente tante volte, e lui non se la sentiva di incazzarsi,non era davvero il tipo. Tra un pensiero e l’altro era arrivato vicino a casa e già intravedeva il tetto del suo palazzo, una selva di antenne abusive e mezze rotte. Passò l’ultimo semaforo, questa volta non lo maledì nessuno, ne fu sollevato, girò a destra. Parcheggiò il motorino nel cortile,lo lego ad una colonna con la catena, si tolse il casco, lo accarezzò ,poi salì su. Fece le scale fino all’ottavo piano, il suo, poi una voce lo bloccò. “Hey,tu vieni stasera?”, “Perché, stasera che si fa?”, “Bah niente, ci vediamo sotto nella topaia di Cherìe, stiamo lì, nient’altro”, “No, no, non ci vengo in quel postaccio Bob,vado a dormire”, “Come vuoi, però stare tutte le sere da solo fa male, quando ero all’università più di una sera in casa non reggevo.”, “Infatti si è visto come studiavi bene, Bob!”. Quello si alterò un poco “Diavolo, Johnny non sfottermi adesso, ti ho solo invitato ad una festicciola”, “Si,si, scusa Bob, sono stanco, mi dispiace,sul serio, scusa”, “D’accordo,si, ma allora che farai tutto da solo su quel materasso?”. Johnny sospirò “Il solito, penserò alle facce di chi ho visto oggi, sognerò di conoscerli,proverò ad immaginare la loro vita”. “Allora una noia mortale?”, “Pensa per te Bob, io mi diverto”, “Contento te, ora vado, ci vediamo domani mattina allora” “Ciao Bob”. Tirò fuori dalla tasca le chiavi arrugginite, ne infilo una nella toppa della serratura, la porta scricchiolò paurosamente, Johnny la richiuse dietro di sé, butto le chiavi in un cesto di vimini davanti a sé, cammino sulle assi di legno del pavimento, lentamente per il buio. Arrivò al materasso,il suo letto, si sdraiò, poi allungò la mano ed accese la lampadina dietro la sua testa, appoggiata su una scatola di cartone. Intorno a sé vide che la casa era impolverata, il giorno dopo avrebbe dovuto farsi prestare da qualcuno straccio e sapone per pulirla. Il letto era retto da quattro pile di libri al posto dei piedi, per lo più volumi universitari di Bob, fumetti e qualche romanzo d’avventura. Johnny ne prese uno caso, fu davvero sfigato: Manuale di diritto processuale civile. Si mandò a quel paese da solo, poi iniziò a leggere. Si addormentò dopo poche pagine e ,come promesso prese ad immaginare.





La mattina dopo fu svegliato da una scarica di fumo, proveniente dalle caldaie del palazzo che avevano lo sbocco proprio accanto alla sua finestra. Venne investito da una zaffata di calore e puzzo che per poco non ci rimase secco. Aprì gli occhi pigramente, si alzò dal materasso, notò che era ancora tutto vestito. Aprì un bauletto in mezzo alla stanza: niente latte, una scatola di biscotti quasi vuota, ne mangiò qualcuno controvoglia, andò in bagno, bevve un po’ d’acqua dal rubinetto, si mise il giubbotto nero ed uscì. Faceva un caldo infernale, il sole batteva come non mai. “Amico, aspetta amico!”, “Oh, Bob, ciao, com’è andata ieri sera?”, “Bah, non ti sei perso niente, avrei fatto meglio a restare con te,c’è più gusto a sparare idiozie”, “Se vuoi possiamo rimediare stasera, sono libero”, “Ah, perché hai deciso di saltare il turno questa domenica?”, “Non so, ti ho detto , sono stanco, voglio riposarmi un po’, è da un sacco che non faccio una passeggiata, stavo appunto uscendo” , “Bravo, bravo! Allora saremo in due ,aspetta che mi metto una maglietta e poi vengo con te”, “Guarda che non ti porto in motorino, vado a piedi”, “Ah! Ma cazzo Johnny è da cent’anni che ti chiedo di salire sul motorino e tu non me lo fai mai usare” ,”Non rompermi Bob, se vuoi camminare, cammina, altrimenti resta a piangerti addosso a casa tua!”. Due minuti dopo stavano passeggiando sulla stradina, deserta, che conduceva dal palazzo alla via principale.
“Ieri sera ho conosciuto una donna?” fece Johny, “Ehi! Dici sul serio? Hai concluso?” ,”Bob, ma che hai capito? Era una cliente, le ho portato le pizze, mi ha aperto la porta la figlia, davvero molto carina, lei poi è alta, ha un bel fisico, capelli neri, mi piaceva”, “Allora, ci hai almeno parlato?”, “Le ho detto quanto doveva pagare”, “Diavolo Johnny, ma perché non ti butti mai, vuoi fare questa vita per sempre, tu dovresti trovarti una bella donna e scappare con lei in qualche posto strano, c’hai anche il mezzo”. Johnny rise “e dove vuoi che vada con quel motorino scassato, può fare al massimo i venti all’ora e già sento rumori strani, no, e poi se mi prendo una donna, che ci faccio? Farle regali non posso, non so scrivere poesie, a cantare non sono bravo , a letto non ne parliamo, quindi…” , “Ma va all’inferno Johnny! Non ne posso più di sentirti parlare così, ci sarà pure una cosa che saprai fare, no?”. Johnny pensava ma non gli venne in mente niente. “Vabbè, lasciamo perdere” disse Bob “parliamo di quella tizia, le tette ce le aveva?”, “Non ci ho fatto caso”, Bob rise “Ok Johnny, o mi stai prendendo in giro oppure sei un idiota di quelli spaziali, scegli tu”, Johnny sospirò “Ti sto prendendo in giro Bob, comunque, non ce ne aveva tante”, “Allora aveva un bel sedere?”, “Si,quello sì”. “Ah, bene bene, ma ,di un po’,ordina spesso da voi, cioè, pensi di rivederla?”, Johnny iniziò a ridere sul serio, “E che diavolo ne so Bob, speriamo, ma poi, non so nulla di lei, so solo il suo nome…Martha Damber, una figlia a carico e la casa dove sta è poco meglio della nostra”, “E vedi che in fondo siete simili” fece Bob “tutti e due dei disperati”. “Perché tu non lo sei?” chiese Johnny, “Che c’entra, non si sta parlando di me, e poi comunque io ho studiato, ho studiato da avvocato, quindi porta rispetto”, “Si Bob,scusa” disse Johnny sorridendo e continuarono a camminare. Imboccarono la solita, grande, sterminata via, la domenica mattina era deserta: alcuni, come l’avvocato Stanley, sicuramente a messa, altri a riprendersi dalle feste della sera prima, altri continuavano a festeggiare in casa loro. Passarono davanti a tante case ,Johnny le aveva visitate quasi tutte, tutti i condomini, tutte le poche ville. “Qui abita un medico, l’ultima volta che ci sono stato era insieme a due ragazzi giovani, più o meno della mia età, pensa, aveva ordinato una pizza alle uova, quando aprì la porta aveva l’accappattoio”, “Lo conosco il dottor Casey” rispose Bob, “Tempo fa,quando ero un bambino, mi visitò per un problema al piede, un gran bel medico, ed un gran figlio di buona donna, sapevo che si era sposato, ma non che avesse figli”, “Non credo che quei due ragazzi fossero suoi figli Bob…oh, ecco guarda, in questo palazzo vive una che fa la cameriera al bar vicino a noi, fino a poco tempo fa ordinava tutte le sere una margherita semplice,con una foglia di basilico sopra. Aveva una faccia così depressa che mi metteva tristezza pure a me, credo avesse problemi sul lavoro” ,”Ma certo che ha problemi sul lavoro, Johnny, la sfottono dalla mattina alla sera, d’altra parte è brutta come la fame, che mai ci vuoi fare, puoi solo prendertela con la natura”.
“Non fare lo stronzo ,Bob, non crederti tanto superiore a questa gente”, “Oh,ma tu stamattina ce l’hai con me, che ti ho fatto?”, “Niente Bob, però mi da fastidio, stai zitto invece di criticare la gente che forse non sarà miliardaria però sicuramente c’ha un lavoro, e noi non ce l’abbiamo”. Bob tacque per un po’, poi riprese “Tu lavori Johnny”; “Si, quindici,anzi, dieci bigliettoni a settimana, e uno spicciolo di mancia da qualche cliente generoso, se ti va bene, ma io non mi lamento, sono già stato fortunato a trovarmi qui, tu invece, Bob…”, “Si, lo so non ricominciare a rompermi, ho studiato e allora dovevo eccetera eccetera, però non credere che sia per tutti facile, eh?”, “Sono d’accordo Bob, ma allora non prendere la gente per il sedere, se poi tu sei il primo a cercare giustificazioni”, “Mi hanno un po’ rotto le tue morali Johnny,e poi fa molto caldo, siamo andati lontani, che ne dici di tornare indietro?”, “Vai Bob” fece Johnny, ti raggiungo fra poco, ho ancora voglia di camminare, devo smaltire l’intossicazione che quel dannato fumo mi ha fatto venire stamattina”, “Va bene” rispose Bob”anche se questa strada non è proprio l’ideale per sentirsi meglio, ci vediamo!”

giovedì 18 aprile 2013

L'uomo della pizza, II


Si erano fatte le nove, Johnny era in perfetto orario, aveva una sola consegna da fare per quella sera, dopo di che poteva tornarsene a casa. Salì contento sul motorino ,controllò che il baule delle pizze fosse bene fissato, lasciò il condominio. Prossima consegna, nome: Damber, abita qui vicino, che fortuna! Due minuti ed era arrivato, di fronte a lui un palazzo altissimo e maleodorante, gli scarichi delle fogne proprio sulla strada, le serrande alle finestre tutte rotte o comunque scassate. Cercava il citofono: “Damber, Damber, qui non c’è”. Solo caselle vuote ,nessun nome, in quel palazzo sconosciuti. Premette un tasto a caso,si fece aprire, in mano aveva una pizza semplice, senza mozzarella, solo pomodoro, non bruciava più neanche tanto. Speriamo non si arrabbi troppo per la pizza fredda, pensava Johnny. Come al solito ascensore rotto, e voci e chiasso da tutte le parti, la luce accesa produceva un calore incredibile, le lampadine penzolanti dal soffitto dei corridoi. Lesse i nomi di tutte le porte, prima di trovare quello giusto, al nono piano, Damber, Martha. “Pizza!” disse bussando alla porta, poco dopo gli aprì una bambina dai capelli castani chiari, pettinati in due trecce ai lati della testa. “Eccomi, eccomi, scusate” sopraggiunse la madre, lunghi capelli neri, maglietta e jeans, occhi vispi e pelle quasi scura. Bella, davvero. Johnny prese i soliti sette soldi e cinquanta, salutò con un sorriso sincero la bambina, e vide la porta chiudersi di fronte a lui. Iniziava la strada per il ritorno a casa e, come al solito, Johnny ripensava alle facce che aveva visto quella sera: il traditore, il puttaniere, la ragazza madre, oddio, già adulta ma ancora giovane. Sicuramente, rifletteva dispiacendosi, si erano già dimenticati di lui, dell’uomo delle pizze. Lui violava il segreto delle loro case, ogni sera entrava nelle loro dimore, ma un solo passo, poi subito via, un perfetto sconosciuto, invisibile, che ronzava col suo motorino ed offriva il suo corpo alla città per tre ore, dalle otto alle undici, quando andava male, altrimenti alle nove e mezza già era sparito. Quella sera di metà settembre se la prese comoda, osservo le prostitute riempire le strade, le trovò tutte carine, ne rimase ossessionato come ogni sera. Aveva un problema Johnny: a volte non si riusciva a dimenticare la gente. 

venerdì 12 aprile 2013

L'uomo della pizza


L’uomo della pizza
 (è un racconto che ho scritto un po' di tempo fa, e che oggi forse non scriverei...)
Passava il carrello bianco dei gelati, le auto sfrecciavano a fari accesi, la strada intera era illuminata da decine di insegne al neon, il vialone che portava da una parte all’altra della città. In stivali di pelle rattoppati, giubbotto nero, jeans stretti e cintura arrivava con il suo motorino, dipinto di grigio con un lungo adesivo rosso a bianco su un fianco. Era Johnny, l’uomo delle pizze. Lo aspettava il pizzaiolo fuori dal locale, con gli occhi spiritati. “Sei in ritardo di cinque minuti”, “Scusa,scusa” si affrettò a rispondere Johnny, come altro non avrebbe potuto fare. Gli consegnò una pila di scatole bollenti, Johnny le metteva nel bauletto dietro al motorino. Partì subito senza che nessuno lo salutasse, quella sera c’era un lungo giro da fare. Aveva il viso oscurato dal casco, attraverso il quale poteva vedere tutta la città illuminata, già i vagabondi affollavano i marciapiedi, si accucciavano nelle loro scatole di cartone. Guidava piano Johnny, e ad ogni semaforo ci metteva un anno per partire, puntualmente veniva mandato al diavolo. Lui continuava senza rispondere, poteva solo andare avanti,dentro si sentiva piangere, ma non lacrimava.
Arrivò a casa del Dottor Stanley, avvocato, verso le otto di sera, era presto. Scese dal motorino, prese la scatola giusta, formaggio dolce e peperoni, si diresse verso il cancello della villa, mentre sulla strada migliaia di macchine passavano. “Chi è” rispose una voce affannata al citofono, “Pizza” si limitò a dire Johnny, senti il cancello che si apriva, entrò dentro, percorse velocemente il vialetto contornato da alberi, fino alla monumentale residenza. “Pieni di soldi” disse fra sé e sé Johnny, storcendo la bocca. Arrivò sotto il portico, bussò delicatamente alla porta, aprì l’avvocato, un asciugamano nero intorno alla vita, dietro di lui una voce femminile. “Quant’è?” disse velocemente, “Sette e cinquanta”, frugò in una borsa da donna appoggiata su un tavolino nell’ingresso, Johnny aspettava fuori, scorse due gambe nude che si muovevano dolcemente sul divano, poi una mano che reggeva un bicchiere, gli venne da sorridere. “Che c’è?” disse il Dottor Stanley. “Niente, niente, grazie, arrivederci” ,prese i soldi e scappò via, non era il caso di immischiarsi in faccende di amanti. Specialmente per uno degli avvocati più in vista della città, moglie e quattro figli a carico, una barca di soldi e molto altro,carne compresa. Appena uscito dal cancello principale, si rimise in moto, passò accanto ad una fila di bidoni della spazzatura, ritornò sulla strada, tagliò la strada ad un’auto, ecco un altro vaffanculo, tanto ci era abituato. Eppure gli faceva sempre male.
Il prossimo chi è? Ecco, la prima traversa a destra, nome: McBride. Ok, eccolo arrivato. Per lui ci sono quattro pizze, tutte al formaggio. Suonò il citofono, gli aprirono senza dire una parola, entrò nel condominio, l’ascensore era rotto, prese le scale: quinto piano, e la mano sotto le scatole friggeva senza pietà. Saliva più veloce che poteva, arrivò davanti alla porta. Bussò. “Pizza”. “Buonasera, per lei quattro al formaggio?”, “Si, sono per me, quant’è?”, “Trenta precisi”, “Ah, si, un attimo…eh, quando si torna da lavoro stanchi,e poi io sto in banca dalle otto di questa mattina, è la cosa migliore ordinare una buona pizza… e poi le vostre sono le migliori, per una serata in famiglia tranquilla… le migliori, in assoluto, prenda ecco,trenta tondi tondi, grazie, mi dia le pizze, ah, ecco fatto, grazie, arrivederci”. Tre biglietti da dieci e un vecchio bottone di mancia, “Stronzo!” sussurrò Johnny, poi scendendo le scale pensava: strano, serata in famiglia, ma in casa non ho sentito nessuno. Era arrivato al piano terra, quando un uomo e tre donne, vestite in modo appariscente, entrarono, si diressero verso l’ascensore. Le donne indossavano una pelliccia, l’uomo un lungo impermeabile grigio chiaro. “L’ascensore è rotto” disse Johnny sorridendo, l’uomo si rivolse allora alle ragazze: “Per di qua, saliamo,su”.

domenica 24 marzo 2013

Lo sciopero bianco


Lo sciopero bianco


Dopo aver messo da parte l'idea di scrivere un post sulla situazione politica attuale(lo stanno facendo già in troppi in giro e ripeterei solo cose già dette) ho comunque deciso, dopo tanto tempo, di scrivere un post vero e proprio. In questo caso si tratterà di un concentrato di inutili casualità buttate come mi vengono in mente. Del tipo "non mi piace l'abbacchio anche se a Pasqua è tradizione" e così via. Ad esempio, ho qualche giorno fa appreso una notizia che un signore di Teramo ha pagato una multa , da lui ritenuta ingiusta, di 110 con 2200 monete da cinque centesimi. "La vendetta delle monetine" titolava il giornale. Ecco, queste sono piccole azioni quotidiane che riescono sempre a stupire per la fantasia degli esseri umani. Non m'interessa sapere se le ragioni del signore fossero giuste o sbagliate. Egli è comunque un genio. Egli ha combattuto il sistema con le sue stesse armi. Non ha disatteso le regole, anzi, le ha rispettate alla perfezione, scegliendo tuttavia la modalità più sadica. Se i sindacati facessero come lui invece di fare scioperi di 8 ore puramente dimostrativi, credo che otterrebbero molti più successi. Pensate, invece di non andare al lavoro, un giorno tutti gli impiegati di un bell'ufficio decidono di rispettare il regolamento nella sua applicazione più ottusa, letterale, puntigliosa. Un minuto dopo i tassi di suicidio salirebbero alle stelle. 
E' solo una riflessione, ma è una riflessione che serve, secondo la mia opinione, a capire una cosa. Quel che non ci piace si può cambiare, e questo è un fatto. Ci sono diversi modi per cambiarlo. C'è il vecchio metodo giacobino, ovvero impugnare le armi e tagliare qualche testa. Qualcuno lo ritiene antidemocratico tuttavia. C'è poi un altro modo, ed è quello di infiltrarsi nel sistema e avvelenarlo dall'interno, oppure costringerlo a cambiare. E' il metodo più difficile, perchè si basa essenzialmente sul compromesso, sul rispetto di regole che vorremmo cambiare. Forse però è anche il metodo migliore. Lascia le teste al loro posto e ,magari più lentamente ma certamente con maggiore ponderazione, porta ai risultati voluti. Ha un difetto: chi s'infiltra nel sistema per cambiarlo dovrebbe conoscerlo a menadito il sistema, altrimenti rischia di finire male. Ma studiare il sistema è noioso, bisogna mettercisi d'impegno, ed è più facile sbraitare o andare appresso a qualcuno che sbraita. Protestare, protestare, protestare. Ma la dura verità dice che la protesta, se è pacifica, serve a poco o niente. La protesta deve mettere paura, e se non mette paura è vuota. Quindi, se di fare rivoluzioni non ha più voglia nessuno, forse sarebbe meglio accettare qualche compromesso, perchè è nel compromesso che a volte si dimostra il proprio valore e la propria sincerità d'animo.


Oh, cavolo! Avevo detto che non avrei fatto un post sulla situazione politica e invece...vabbè, per questa volta perdonatemi.

venerdì 15 marzo 2013

Quando a oriente sorge il sole


Quando a oriente sorge il sole

Rimane un sapore strano in bocca quando finisci di raccontare le tue storie, e cerchi di mandarlo via respirando sempre più forte,poi però ti riduci solamente a disperdere il tuo ossigeno nel cielo che ti maledice dall’alto e ti mostra la sua strana e luminosa oscurità.
Qualche volta capita che il freddo intenso della notte riesca ad accendere le stelle,e a farle scoppiare,come tanti piccoli fuochi che si liberano e sciolgono il ghiaccio funereo sulla strada. Due fiaccole mi circondano e mi riscaldano mentre appena fuori dal portico resistere al freddo diventa impossibile. L’aria sembra un coltello,tagliente come le risate di quelle due guardie appoggiate al muro di cinta; si divertono a prendersi gioco di me e chissà quante battute si stanno dicendo adesso, maledicendomi con la più tetra ironia possibile, tronfi e superbi, dall’alto della loro potenza e della loro superstizione,perché i vagabondi sono messi del diavolo,e vanno allontanati. E’ strana questa storia: non la conoscevo fino a quando un giorno,da ragazzo, mi trovai a parlare con un soldato di ventura lungo la strada che dal fiume porta alla città,e dove qualche anno fa i sentieri erano coperti di cadaveri. Quel soldato, ricordo, era più strano delle parole che pronunciava, con i suoi folti baffi e la sua divisa sgargiante,sembrava un angelo giullare che di corte in corte vagava e vendeva le sue fandonie al prezzo di una zuppa calda. Mi raccontò la sua storia sui vagabondi,e da allora io sono disposto a venderla per meno di un tozzo di pane; qualche volta mi chiedo cosa mi direbbe se lo incontrassi oggi,ed ho quasi paura di sottopormi al suo giudizio.
Prendo con la mano l’ultima briciola che mi rimane da mangiare,nel piatto gli spiccioli di un’elemosina ormai dimenticata, che un bambino mi donò la notte di Natale. Il sapore del pane di città è quanto di più disgustoso possa esserci,ma è l’unica cosa che ho,e lo stesso forse sta pensando quella graziosa donna dai capelli bruni che ora passa con un libro di poesie in mano per la via su cui mi affaccio. Persino le guardie smettono di ridere e si fermano a guardarla,ma lei non degna loro di un’occhiata, si gira invece verso di me,e gli angoli della sua bocca si tendono fino a creare,come un demone dal fuoco, un misterioso e glorioso sorriso.
Ogni suo passo si fissa nel candido scorrere del tempo come un momento indistinto e dal significato oscuro, e non appena il suo petto si muove seguendo il respiro ,la magia della mistica visione lascia che lampi silenziosi illuminino il cielo e colpiscano ogni uomo lasciatosi ammaliare da
quell’effimero desiderio che è la certezza d’amare;  poi,quando il passo ed il respiro si esauriscono nei rivoli della notte, la normalità torna sovrana, tacita guardiana di una bellicosa quanto insignificante rivoluzione.
Colpisce anche me la passione,e ,malgrado tenti di nascondermi portando al volto le mani,le pupille sconquassano l’iride nel disperato tentativo di rispondere a quel sorriso. Ben presto,quando ogni resistenza viene facilmente vinta, la forma degli occhi cambia, due leggere lacrime lasciano i propri destini brillare alla luce delle fiaccole, cadono con lentezza quasi da litania sulle mie guance secche e,nonostante la bocca sia paralizzata, la sensazione stessa del sorriso lascia il mio corpo ed arriva a quello di lei, di una donna davanti a questo lurido vagabondo.
Le guardie riprendono a scherzare ed una di loro si avvicina mentre cado come in estasi,fino quando un altro sguardo mi ridesta e mi fa rabbrividire, poi solamente lo sghignazzo e la prepotenza, quando la donna già se ne è andata,e ha voltato l’angolo.
Non è vero che la notte le strade siano deserte: oltre alle guardie si vede,talvolta, passare della gente, ed ognuno racconta la fiaba di una vita che solamente il gelido torpore delle tenebre riesce ad estrarre dalle menti incatenate.
I ladri,che rallentano il passo per non farsi notare e che cercano di nascondere con il tremolio il sudore freddo che scende dal viso. Solitamente tengono sempre una mano dentro il mantello,a protezione del loro bottino,e non fanno altro che sorridere ai gendarmi mostrando vecchi e scoloriti denti d’oro. Eppure mi sembrano così ingenui, e mi accorgo che sono lontani i tempi in cui anche io dilettavo il mio spirito e la mia sofferenza nell’arte del rubare; e se un pallido ricordo sono le botte che mi diede un giorno un capitano di polizia, colpendomi nel petto con un bastone, riesco ancora a rammentare quello strano sentore che il mio corpo provava ogni volta che la rapina si trasformava in fuga:non riuscivo a capire chi mi inseguisse,e mi sembrava di inseguire, come fossi stato uno stupido innamorato che corre per far ritorno dall’amata. A volte avevo voglia di cantare,altre volte urlavo semplicemente ,e quel giovane giocare si esauriva nello spazio di un canale e nel tempo di una semplice percossa.
Tante volte ho rubato e altrettante volte sono stato catturato,per questo oggi mi chiedo come facciano i ladri a farla franca,se non valgono un dito di quello che valevo io allora.
Spesso le guardie li ignorano, lasciano che il sogno di un pezzente diventi realtà, ma è solo un’elemosina, uguale a quella che mi fanno oggi i bambini. Il ladro di strada si accompagna sempre con un cane randagio,che abbaia alla luna e che muore divorato dalla fame e dalla peste.
Piccole servette si lasciano intenerire dalla vista dei cani,e sopportano di essere infettate dai neri bubboni pur di accudirli. A volte scoppia un’epidemia in città,ed è allora che i ladri dovranno subire la vendetta, e la tortura sarà tremenda
Colonne di luridi schiavi attraversano le strade, il loro tanfo è insopportabile e la gente si copre il volto con la veste. Io li osservo solo la notte, quando i loro padroni li lasciano scorrazzare liberi per i quartieri malfamati,ed allora iniziano le orge e i bordelli si riempiono.
La casa chiusa all’angolo della strada ha l’insegna di un fiore primaverile, il custode è un vecchio dalla barba bianca. Mi sta guardando,io guardo lui ed inizia una sfida. So di peccare d’infantilità, ma solamente se riuscirò a sbagliare così tanto da persistere in questa spregevole idiozia potrò vantarmi fra i dannati dell’inferno,quando sarà arrivato il mio momento, di essermi meritato un posto in mezzo a loro.
Passano schiere di giovani vagabondi, dalle loro tasche escono monete d’oro ed il peso della loro testa rasata a zero schiaccia le loro schiene e comprime i polmoni. Respirano l’incenso che esce fuori della moschea, e paiono disorientati dal profumo, abbaiano al suono di un liuto, che un vecchio mercante suona all’angolo della strada. Il mercante mi guarda e mi rivolge un sorriso pieno di disprezzo: a lui racconterei volentieri una delle mie storie, magari proprio quella del mercante di schiavi e del tesoro all’ombra di una palma del deserto. Credo che la potrebbe apprezzare,perché è un uomo di mondo.
All’improvviso il mercante smette di suonare,ed alza lo sguardo come incantato, fissa con occhi arrossati dal pianto la strada dove proprio adesso passa una mezzana. Le sue dita sono indecise fra il premere sul legno dello strumento o lasciarlo andare senza alcuna tensione. Una corda si spezza.
Solo i vecchi sanno soffrire per passione, e solo loro riescono a cogliere nel profondo il senso che il corpo di una donna vuole comunicare. L’esperienza ci insegna a distinguere fra lo sguardo e la parola, fra il pensiero ed il desiderio.
Non resisto alla tentazione ed alzo lo sguardo, rifugiandomi ancora una volta nel mio vecchio e consunto mantello.   
Nel brivido di un istante, tutte le mie riflessioni,annegate in un sospiro, si perdono nel gelo degli occhi vitrei della mezzana, la pupilla illuminata dalle fiaccole riflette sul corpo l’immagine di una donna ,che a stento pareva essere reale. La vedo, e mi accorgo di quanto sia bella, avvolta in un peplo color del mare, le cui pieghe assumono la forma ed i contorni delle onde. Scivola leggera la sua mano sul fianco destro,ed il mio sguardo la segue ammaliato. Tento di cercare i suoi occhi ancora una volta,ma il suo viso è lontano. Soltanto la pura sincerità del suo corpo placa la mia sete d’amore. Provo a pensare quante volte sia passata su questa strada e quanti vecchi vagabondi abbia stregato.
E’ stata l’ultima ad uscire dalla casa chiusa, dopodichè il custode ha sprangato la porta. La donna ha ancora con sé l’odore pesante dolciastro di quel posto,meta di pellegrinaggi quanto un luogo sacro, dimora di riottosi, topaia di dannati che sperano,in un letto sudato,di trovare la strada per la salvezza e per la soddisfazione. Ogni giovane meretrice che esce dal quel posto ha lo stesso sguardo di ghiaccio,gli occhi appena sbarrati, che fanno da contraltare all’inevitabile frustrazione delle loro membra, ferite e sanguinanti, ma ancora disposte a farsi succhiare.
Ad un certo momento,ridestandomi dai miei pensieri, ascolto un gemito, un gemito sussurrato,e mi volto verso il suonatore di liuto, credendolo piangente,poi,trovo la soluzione sempre nella stessa donna, i cui occhi ora provano a sciogliersi. Le lacrime si distinguono appena ,oscurate dal buio, ma la loro presenza si avverte anche solamente con l’anima. Il lungo vestito azzurro si stringe attorno al corpo,che di colpo si irrigidisce, i capelli neri si muovono per un attimo con una folata di vento, ed il pianto ricomincia, ancora più forte.
Mi alzo un poco allora, e mi concentro nell’ascoltare: nel suono di quel gemito mi pare di sentire l’intera città, addormentata nella notte fredda, vittima delle sue delusioni e dei suoi brutali istinti.
Il gelo si è fatto più pressante e i respiri, uscendo dalla mia bocca, si condensano dando forma a vere e proprie nuvole di fumo, presto dissolte nell’aria. La mezzana,a passo lento, lascia la via e devia,risvegliando l’attenzione delle due guardie,che,una volta che lei è passata, esprimono il loro biasimo bigotto in una semplice battuta,poi riprendono a scherzare. La guardia più giovane ha nella cintura un coltello, spesso lo tira fuori dalla custodia in pelle e si diverte a palpeggiarlo con le dita,cercando i suoi riflessi d’argento e di terrore,per lui passione accecante. Qualche volta punta il coltello dalla mia parte,come per intimorirmi, ma sono troppo stanco per dargli soddisfazione. Il vecchio che suonava ha posato lo strumento ed ora è addormentato,con la bocca aperta rivolta verso il cielo. Ha un aspetto orribile,ma mi incuriosisce; vorrei conoscere la sua storia,vorrei che mi cantasse una canzone, un qualche antico canto popolare,scritto magari da un ragazzo di strada in un bordello poco prima di essere accoltellato.
Le musiche che riempiono i teatri e le locande alla sera non mi danno l’impressione di essere vere. Una volta conobbi un pescatore,che scriveva ballate con l’armonica in riva ad un fiume,in attesa che qualche pesciolino malcapitato abboccasse alla sua misera esca. Diceva di scrivere canzoni per passare il tempo, perché la noia gli faceva nascere dentro la tristezza. Non ho mai sentito nessuno suonare come lui e, dal giorno in cui mi salutò per partire verso ovest su di una barca rattoppata,ancora aspetto di ascoltare di nuovo le sue canzoni. Ora l’unica musica che sento è lo strano e disperato miagolare di un gatto,accasciato sopra la bancarella di un verduraio,completamente vuota. Di giorno il brulicare di vita vicino ai negozi è incredibile, gli odori acri di spezie e di carni frollate, di verdure colorate o di frutta fin troppo matura stimolano la fantasia,oltre che l’appetito, dei passanti. In ogni negozio o bazar c’è qualche animale, che spesso è un cane o un gatto. Loro restano anche la notte,abbandonati dai loro padroni, e le scorribande in cerca di qualche avanzo di cibo sono la paura di ogni mendicante.
Stasera però il mio piatto è pieno di polvere mista alle lacrime e al sangue, ed allora posso guardare senza timore che qualcuno disturbi la mia quiete. Il gatto avverte quando c’è un nemico nelle vicinanze e,veloce come un fulmine, scappa lontano. Ora che con il suo grido felino sta fuggendo,vedo passare il cane che lo insegue, ma è troppo lento, non lo raggiungerà mai. Un pianto indistinto risponde all’abbaiare insistito del cane: probabilmente è un bambina,che vive nelle case verso la fine della strada. Le famiglie che abitano lì sono tutte di operai o di stranieri, il cui digiuno più che una penitenza è una necessità. I loro figli hanno sempre vestiti stretti, cuciti dalle madri mettendo insieme qualche vecchio straccio.
Prego per quella bambina, il suo pianto si placa,ma domani mattina sono sicuro che ricomincerà.
Le risate delle due guardie sono più lontane, forse hanno voltato l’angolo anche loro, stanchi di dover sopportare la presenza di un pezzente. Il vecchio addormentato sulle seggiola pare morto e quasi mi fa paura. Il freddo è sempre più intenso ed allora capisco che deve essere veramente tardi. Qualche fiaccola comincia a spegnersi,ma la strada rimarrà ancora viva,almeno per qualche minuto.
Vedo passare un’altra guardia,disarmata, che mi scruta senza proferire parola. Di tanto in tanto gruppi di due o tre ragazzi,che a stento si reggono in piedi, attraversano lentamente la strada, e,vedendo attraverso il portico la mia faccia,sorridono disordinatamente.
Qualcuno di loro forse,stanotte morirà, per colpa sua o per colpa d’altri,ma in fondo sono cose che succedono,e per cui non scomodo più nemmeno la mia pietà.
In un attimo sento arrivare da lontano un cigolio,che diventa sempre più forte,poi più niente.
Ogni notte arriva il momento di essere soli,e bisogna prepararsi non ad affrontarlo, quanto ad accettarlo. Sarà per il freddo che mi apre le ferite,o per la malinconia che si respira stanotte,ma non riesco a prendere sonno e, se provo a chiudere gli occhi,sento solamente l’attesa divenire sempre più insostenibile. Sono costretto a guardare questa via e quel vecchio a bocca aperta,finché lo schifo di questo posto convincerà il mio corpo a dormire. Una lacrima scende dai miei occhi e bagna la mia mano, che d’un tratto si stringe forte fino a fare male. E’ tutta la vita che aspetto ,ed il mattino è ancora lontano.  

lunedì 4 marzo 2013

Un'immaginazione


Un’immaginazione

Però l’Africa è un’immaginazione. E’ il tramonto biblico del Nilo, sulle cui acque basse, vicino alla riva, un padre e un figlio, forse in fuga, camminano, seguendo il corso del fiume. La storia di quegli uomini è l’Africa, ma l’Africa non esiste, è un sogno. C’era una volta un regno, ma ora non più. Le parole ancora dolci della millenaria fiaba scorrono lente sul Nilo, rinfrescato dalle frasche mosse dal vento ai lati dei suoi argini. Gli uomini camminano, ma il loro viaggio pare non avere meta. Scappano dalla povertà che tiene in braccio il continente, scappano dalla falsa libertà o dal falso progresso di molti regimi. Si chiedono come il presente possa cambiare. Guardano al passato. La storia è il loro unico conforto. C’è stato un tempo in cui l’Africa era grande ed ha allevato gli uomini, ha permesso che crescessero e che imparassero a vivere, li ha ospitati nelle verdi valli che adesso si chiamano Sahara, ma verdi non sono.
I templi dei faraoni guardano distratti il cammino dei due. A tratti il più giovane dei due, il figlio, alza lo sguardo al cielo, si asciuga il sudore dalla fronte, porta un passo avanti e sogna della gloria di Menfi o di Tebe che non ha letto sui libri di scuola, perché a scuola magari non ci va nemmeno, ma sui versi in rima della sua fantasia. Vorrebbe riprenderselo il passato, ma da solo non sa se può farcela. Quando il letto del fiume si restringe, i due uomini lo abbandonano. Sono ormai nell’alto Egitto. Lungo l’acqua una barca a motore arriva veloce. Sono stranieri, ma non hanno la faccia cattiva dei mercanti d’Europa o d’America. Portano sacchi di cibo e parole nella testa da insegnare ai bambini. <<Siamo qui per aiutarvi>> dicono mentre costruiscono una scuola , regalano ai due un portafortuna: un ciondolo di Iside. <<Anche noi possiamo aiutarvi, con tutto quello che abbiamo>> dice il giovane <<Ma solo quando voi lo capirete potremo farlo per davvero>>. Camminano.  Fuori dal fiume c’è ancora il deserto. La sabbia mormora, mossa dal vento, ulula piano solitaria sotto i loro passi che affondano nel cuore delle dune.
C’è un’oasi, in mezzo alla notte, nel buio. L’aria che sfiora le palme le fa vibrare come un flauto. Quando Allah ha voluto scrivere le Mille e una Notte forse lo ha fatto lì. Padre e figlio si siedono, una polla d’acqua davanti a loro, un dattero fra le mani. <<Ti manca tua madre?>> chiede uno, l’altro scuote la testa, sforzandosi di mentire. Si rialzano e nel cammino le lacrime si seccano ancor prima di scendere dagli occhi. Il loro sogno dura ancora, così come la sabbia, che sembra non finire mai. Ad un certo punto però finisce anche quella. L’inferno di Dio ,che spacca la roccia fino a farla diventare sabbia, cede pian piano il passo a qualche baobab sparso, a qualche pozzanghera ereditata dalla pioggia. Gli animali vi si abbeverano, anche i due uomini, affaticati dalla traversata del deserto. Aspettano che i leoni se ne vadano e si avvicinano all’acqua senza far rumore. Bevono a piccoli sorsi, si sorridono l’uno con l’altro, ma non sanno ancora perché sono lì. Loro due,persi in mezzo alla savana, guardano sulla linea tremolante dell’orizzonte le fronde della foresta pluviale che si alzano, e nascondono genocidi, lotte fra tribù, e uomini che firmano col sangue degli altri qualunque cosa. Finire fra quei massacri fa paura a tutti, anche a due fuggiaschi senza speranza. Il buio della giungla nasconde l’odore della morte, così e più facile da ignorare. Un gruppo di bianchi, bianchi come il latte, costruisce una capanna in un villaggio. Alcuni sono bianchi anche nei vestiti. Sembrano dottori. Loro due si fermano, e guardano. C’è chi il sangue non lo usa solo per firmare, ma anche per curare. Sono grati ai dottori stranieri. <<Con le vostre armi ci ammazzate, con il vostro sangue ci curate>> dice il giovane <<Ci curereste ancor di più portando scuole e sogni dai vostri paesi, invece che mitraglie>> La terra rossa s’alza mossa dal vento. Caldo. 
Se ne vanno ancora. Fermi non possono stare. Fra le radure a macchia strette fra la foresta, le piogge, i laghi dimore di fenicotteri e le mandrie in corsa per la vita, c’è un vulcano, su cui si dice sia nascosto il tesoro del figlio di re Salomone. E’ un vulcano strambo, è il vulcano dell’Africa. E’ coperto dalla neve. Il padre indica al figlio la grande montagna bianca. Anche se non hanno letto Hemingway, sono comunque muti di fronte alle nevi del Kilimangiaro. Si chiedono se il gelo serafico di quella cima, che resiste al bollore delle viscere dentro di sé, potrà invadere tutto il continente un giorno. E’ un mondo in rivolta, è un mondo in fuga da se stesso, come loro due, contadini o pescatori od operai abituati a vedere il proprio sudore cadere per terra e formare rigagnoli sulla sabbia. Si siedono per riposarsi. Hanno viaggiato tanto e intorno a loro c’è ancora solo sabbia. Un nuovo deserto, uno dei tanti, ma questa volta il caldo è alleviato e lascia spuntare sulla bocca un sorriso. Stesi fra le dune del Namib, hanno alle spalle la sabbia e davanti il mare. Il blu quasi acceca, il freddo dell’acqua scorre sotto la terra. Il tutto e il nulla, l’infinitamente arido e l’infinitamente umido che si toccano, si abbracciano ,pare quasi che si amino. E’ l’amore per l’Africa. Con lo stesso amore gli stranieri costruiscono le capanne nei villaggi, o curano un’infezione, o semplicemente partono, ma non per fotografare i leoni da dietro il vetro di una jeep. Partono per l’Africa. Non bisogna per forza nascere in Africa per essere africani: serve tornare col pensiero al momento primordiale della nascita di un uomo. Serve sorridere d’amore per il miracolo della concordia che si realizza fra due sguardi, mentre ,insieme, guardano al sole e pensano al domani.
Quell’amore rende fertile la terra, anche quando è deserto e, davanti agli occhi dei due uomini, fa nascere un giardino. Fiorisce il Gelsomino ed alzano la testa le palme sulle sponde del Nilo. Forse i templi dei faraoni non potranno più essere così indifferenti, chiusi nel mito della forza di ieri. C’è una famiglia spezzata in riva al mare, lungo il deserto. Sono padre e figlio, senza nulla con cui vivere. Quando davvero il mondo crederà nell’Africa darà lei non solo l’amore dei volontari e missionari. Darà la speranza di vivere in un paese libero, dove libero è il lavoro. Ma la Speranza muore se non c’è nessuno a tenderle la mano. Sorridono , perché sono ancora vivi. Quell’immaginazione che chiamano Africa è talmente vera da rimanere stupefatti. Nell’attimo della contraddizione deserto-mare vedono lo spruzzo di una balena alzare una colonna d’acqua azzurra nel cielo grigio della mattina. Freddo. Il loro è stato un viaggio nel sogno, fra gli alberi in cui sono nati, milioni di anni prima, i loro genitori. E’ forse quell’eredità comune che li fa sentire uguali,che chiede d’essere condivisa con il mondo per una nuova civiltà.
<<Però l’Africa è un’immaginazione>> dice il padre socchiudendo gli occhi. Bello farla diventare realtà. 

venerdì 22 febbraio 2013

Il ventesimo Natale


Il ventesimo Natale
Quando Bartolini Francesco arrivò a Camugnano per Natale insieme alla sua nuova ragazza, si fermò con la macchina davanti alla vecchia casa dei nonni e respirò affannoso mentre contemplava Martina.  Il giornalaio dall’altra parte della strada lo guardò con un occhio distratto. Tutti sapevano che quel Natale non sarebbe venuto da solo. Pareva impossibile. E quando Martina scese dalla macchina la fruttivendola e il fornaio, con il grembiule sporco e pochi clienti quella mattina del ventitré, s’accorsero che quella ragazza non sarebbe piaciuta. Eppure non era brutta. Nemmeno bellissima, però aveva begli occhi, era alta poco più di uno e sessanta e vestiva con grazia. Forse il naso un po’ troppo grande, ma non poteva importare troppo. La prima smorfia la fece Valerio, il cugino piccolo di Bartolini. Martina non ci fece caso ed aiutò a tirar fuori le valigie dall’auto. I nonni vennero ad aiutare. Il giorno stava calando e dentro casa era già acceso il camino. Era pronta la lasagna e la nonna aveva fatto la torta quel giorno. Bartolini teneva per mano Martina, senza accorgersi delle risate del giornalaio dietro di lui. Forse lo prendevano in giro. Nella taverna accanto zii e prozii si godevano ancora gli ultimi scampoli di tramonto vicino a una bottiglia di vino. Era un Natale non troppo freddo. Era un Natale triste. Quando s’alzarono e si diressero verso casa per cenare tutti assieme, si chiesero come sarebbe stata mai la nuova ragazza di Francesco. La prima ragazza di Francesco. Carla non ci credeva, e trascinava il suo bambino quasi sgraziatamente per la strada. Non vedeva l’ora di vedere. Suo fratello Francesco non era più da sola. Ma le sue speranze sarebbero state deluse, la avvertì la fruttivendola. Cosa c’avrà trovato mai in Martina? Carla aveva anche preparato due tazzine di ceramica per Francesco e Martina. Ci aveva scritto sopra le iniziali. Ma non era più sicura di consegnarle. Non le andava di fare Babbo Natale. Si sentiva già abbastanza vecchia per il fatto di dover tirare avanti tutti i giorni da sola, in più col bimbo che frignava. Entrarono in casa con le loro chiavi, senza bussare. La nonna s’accorse di lei solo dal pianto del bimbo. Bartolini Francesco non disse niente. Era seduto al tavolo, e guardava il lampadario. Fuori era buio pesto e adesso stavano rincasando anche zii e prozii. Erano tutti. Insieme. Valerio si divertiva a far battute acide sugli animali col nonno, e Carla si sedette sulla poltrona ,sfinita. Aveva un pacchetto in mano, ma nessuno le chiese cosa fosse. Non lo posò ai piedi dell’albero. Non si fermò a guardare il presepe che la nonna aveva fatto tutto da sola. Guardò di sfuggita Martina e pensò che avesse il naso troppo grosso. Sorrise al suo bambino e se lo mise in braccio coccolandolo teneramente. Bartolini vuotò il bicchiere d’acqua che aveva di fronte a lui, e prese ad accarezzare le ciocche castane di Martina. Hai dei bei capelli, disse, ma sottovoce per non farsi sentire. Valerio sentì lo stesso e distolse lo sguardo da quell’orribile naso, che fu notato anche dallo zio Romano che aveva già parlato anche col giornalaio, e si era convinto anche lui che quella ragazza non fosse un granché. Come vi siete conosciuti? Chiese Carla, e Bartolini Francesco lasciò parlare Martina. Ma lei si vergognava. All’università, disse arrossendo tutta. Che brutta l’università, strillò Valerio ,e poi la nonna gli disse di sedersi, che bisognava iniziare a mangiare.  Quel giorno le lasagne era venute male. Quasi bruciate. Martina mangiò tutto senza dire niente. Non le piace, disse Carla alla nonna, è vero Martina? Lei non rispose, e lo zio Romano rise. Anche a lui facevan schifo quelle lasagne. Era un Natale in famiglia. Era tanto tempo che Carla non veniva a Camugnano. Aveva avuto i suoi bei problemi,ma non aveva voglia di parlarne. Raccontami di te, disse a Martina, ma lei fece intendere con un silenzio che preferiva tener la bocca chiusa. Ma ti hanno rubato la voce? Chiese lo zio Romano, e Bartolini Francesco strinse la mano alla sua morosa, e la strinse più forte che poteva. Fuori iniziava a far freddo. Lo si capiva dal vento che muoveva le cime degli alberi e che andava a sbattere contro i tetti. E’ bello star qui, disse Bartolini, e Carla sorrise. Suo fratello le mancava. Avrebbe avuto tanto bisogno di lui al suo fianco. La bottiglia di vino era quasi vuota, e il nonno s’alzò per prenderne un’altra. C’era aria di festa. Il bimbo di Carla mangiava docile la sua pastina, mentre la mamma continuava a guardarlo, e a tratti lanciava smorfie abbozzate contro il naso di Martina. Bartolini non capiva cosa non andasse. Hai dei begli occhi, disse alla ragazza, e lei arrossì di nuovo, senza riuscire a parlare. Ora arriva la torta, disse la nonna, e a Bartolini parve di essere in un sogno. Aveva sognato un  bel po’ di volte di far assaggiare quella torta speciale ad una persona che gli stesse accanto. Tutte le volte aveva sempre mangiato la sua fetta da solo. Un anno Carla, per consolarlo un po’ un periodo che era triste e lo studio andava male, aveva preparato la stessa torta, ma il suo marito di allora l’aveva mangiata quasi tutta ed aveva anche detto che faceva schifo. Ora Carla era così presa dal lavoro che non poteva certo mettersi a far torte. Ci pensava la nonna, anche se con più fatica di un tempo. Un fulmine catturò l’attenzione di tutto, ed il crepitio del fuoco mentre fuori la pioggia prendeva a infuriare fece capire a tutti che si trattava di un bel Natale. Tutto il paese era in casa, per le strade non c’era nessuno, a parte l’auto di Bartolini Francesco, martoriata dall’acquazzone. Non si rovinerà la macchina? Chiese la nonna. Non preoccuparti, rispose Bartolini e dopo aver mangiato la torta chiese a Martina se le fosse piaciuta. Lei annuì. Bartolini, ti senti sicuro di te oggi? Disse lo zio Romano, e Bartolini disse sì. Valerio gli rise addosso, ma la nonna gli diede uno scappellotto ed allora restò zitto. Bella ragazza, ma quel naso, disse il nonno allo zio, e Martina non aveva sentito, e continuava a sorridere, ed era la prima volta che le capitava di passare il Natale con un ragazzo accanto. La casa era calda e illuminata di tenue luce rossa. Era bello, anche se strano. State bene insieme, disse Carla a Bartolini. Avete programmi per i prossimi giorni? Forse facciamo un giro per i paesini qua vicino, disse Bartolini. Ma non c’è molto da vedere. Beh, cos’altro c’è da fare? Nulla. Carla ora sorrideva più rilassata. Il suo fratellino era di fronte a lei, iniziava ad arrossire anche lui. Si sentiva così piccolo. Vado a dormire, disse il nonno, mentre la nonna già iniziava a lavare i piatti. Partita a carte? Chiese lo zio Romano, ma quell’anno, per la prima volta, Bartolini non poteva. Non aveva tempo di giocare. Io gioco, disse Carla. Ma tu non sai giocare. Gioco lo stesso. No, se non sai giocare no. Lo zio Romano s’alzò, si versò un ultimo bicchiere di vino. Salutò la nonna e disse arrivederci al giorno dopo. Carla non lo salutò. S’era offesa. Beata la donna che riusciva a sopportare quell’uomo, pensò. Fuori piove ancora? Chiese Bartolini. Sì, piove, non si può uscire. Allora come va Carla? Abbastanza bene, si va avanti. Con il lavoro? Non mi lamento, e tu come stai, l’università come va? So studiando per gli esami di febbraio, spero vada tutto bene. E tu che studi Martina? Matematica. Mamma mia, una ragazza che studia matematica, disse Carla ,e rise a più non posso. Ma che brutto quel naso! Ora noi andremmo in camera, disse Bartolini. Fa’ pure, esclamò la nonna, e poi chiese a Carla di aiutare a lavare i piatti. Devo mettere a letto il bambino nonna, vengo quando ho finito. Perfetto. Allora buonanotte. Buonanotte. Quella notte Bartolini non aveva molto sonno. Aveva freddo. Fuori c’era una tale pace. Il rumore della pioggia conciliava i pensieri. Come è possibile che io ti abbia trovato? Chiese Bartolini a Martina, e lei non rispose. Era iniziato con un caffè insieme, oppure era un sorriso a mensa? Non si ricordava più. E quanto tempo era passato? Qualche mese: due, forse tre. Per loro, quell’anno,la nonna aveva preparato il letto grande, e ci aveva messo le coperte rosse, quelle belle. Per Bartolini, quando era solo, non lo aveva fatto mai. Non lo aveva mai fatto nemmeno per Carla. Mentre lavava i piatti la nonna pensava. Speriamo vada tutto bene. Se solo non avesse quel naso sarebbe perfetta. Carla scese già in pigiama. Ti aiuto, disse, e la nonna sorrise. Ti sei ripresa dopo il divorzio? Chiese. Sì, almeno credo, rispose Carla, ma non era troppo convinta. Mentre asciugava i piatti diede uno sguardo veloce alla finestra. Fuori pioveva ancora. Le vecchie stoviglie di rame sopra al ripiano del camino brillavano di luce propria. Il loro luccichio invadeva tutta la stanza, rendendola magicamente più calda. O forse era solo il fuoco. Carla iniziò a sudare. Quanti anni hanno quelle stoviglie? Tanti, rispose la nonna, me li aveva dati mia madre come dote, da portare in casa dopo il matrimonio. Da quanti anni non le usi? Troppi. Perché non prendi a riusarle? Sono troppo vecchie, proprio come me.  Non dire così nonna, fece Carla, io mi sento più vecchia di te. Secondo te durerà per Francesco? Non lo so, per me no, è impossibile. Hai ragione, è impossibile. Bartolini Francesco era quello che non ci riusciva mai. Poco più tardi Carla, salendo le scale, notò la luce nella camera dei morosi ancora accesa. Non era troppo tardi, ma lo era abbastanza, così bussò. Bartolini disse avanti, e c’era lui da solo a guardare la finestra. Dov’è Martina? E’ in bagno. E’ bella, disse Carla. Lo so, rispose Bartolini, ma non stava sorridendo, e il suo cuore batteva forte, Carla lo poteva sentire. Che hai? Gli chiese. Niente, rispose lui. Non ci credi neanche tu che non sei più solo, vero? Bartolini annuì, poi Martina entrò nella stanza. Sorrise. Carla se ne andò augurando la buonanotte a tutti e due. Pochi minuti dopo il bimbo di Carla prese a frignare, al punto che anche il nonno si svegliò . Bartolini chiuse la porta a chiave, si girò per guardare Martina nel letto. La lampada era accesa. Un bicchiere d’acqua sul comodino. Hai sete? Chiese Bartolini, Martina annuì. Perché siamo qui? Disse, e la ragazza parve capire, ma non disse niente. Non ne aveva più la forza. Chiuse gli occhi cercando di abbandonarsi al sonno, e Bartolini la guardava da lì vicino. Le prese la mano, gliela baciò delicatamente, provò a ricordarsi del giorno che gli aveva detto “sì”, ma non ci riuscì. Forse era stanco anche lui. In paese c’era aria di stanchezza. Era morta la moglie del giornalaio, poi il marito della fruttivendola. Tutti portati via dall’età. Ogni anno ce ne era qualcuno di meno. Lo zio Romano ripeteva sempre che quel paese portava sfortuna, e Carla gli dava ragione. Per questo non ci voleva mai andare. Ma a casa sua doveva star sola, e non le andava più. Bartolini pensava a sua sorella, ed un po’ gli veniva da piangere. Martina lo vide mentre apriva gli occhi, e disse se fosse colpa sua. Che cosa? Il pianto, è ovvio. E’ colpa mia? No, no, certo che no, perché lo pensi? E’ per il mio naso forse? Vorrei tanto non averlo. Cosa c’entra il tuo naso? Martina sorrise, la sua voce usciva impercettibile. Non sapeva parlare ad alta voce. Bartolini le baciò la guancia, poi il collo, ma cercò in tutti i modi di non guardarle il naso. S’accorse di averne paura. Fuori continuavano i pianti del bimbo e la finestra pareva quasi cedere sotto il peso della pioggia. Ora dormi, sei stanca, disse Bartolini. In quell’esatto istante pensò che Martina, prima o poi, se ne sarebbe andata. Era rimasta terrorizzata da quella sera, o,semplicemente, aveva perso la voglia. Capita sempre. Era capitato a Carla col marito. Sarebbe capitato anche a lui con Martina. In quel momento però le voleva bene, e lei a lui. Dormi, dormi tranquilla piccola, stanotte ci sono io accanto a te. Bartolini spense la luce, e la stanza si fece improvvisamente più fredda. Chissà quale sarà il mio regalo di Natale quest’anno, pensò, poi chiuse gli occhi. Una mano lo sfiorò. Era sua sorella. Come sono andati gli esami? Tutto bene, disse lui, ma sono stanco. Stai male? Sì. Perché? Cos’hai che non va? Credo d’esser stanco di star sempre da solo. Ma non preoccuparti per queste scemenze! Prima o poi...lo sai che tua nonna ti vorrebbe tanto vedere con una ragazza che ti voglia bene,però trovatela carina… E’ il naso che non va, te ne accorgi? Quella non piace a nessuno, poi non parla mai e non bisogna fidarsi…attento che quando meno te lo aspetti quella se ne va e ti lascia disperato…dai retta a me, me ne intendo. Ma perché non posso decidere da solo? E’ per il tuo bene, fidati. Ma perché non posso volerle bene? Perché è impossibile che qualcuno voglia bene a te. Tu sei quello che non ci riesce mai. Resta vicino a me ,Francesco, tua sorella ti conosce e ti vuole bene, e vieni quest’anno in montagna a Natale, la nonna ti prepara le lasagne e la torta alle castagne. La mattina dopo era avanzata una fetta di torta. Stava lì accanto alla tazza col latte. Bartolini la vide, anche se la sua vista era annebbiata dalle luci del mattino, dopo una lunga notte di sonno. Mancava poco a Natale ormai. Bartolini disse buongiorno a tutti, sorrise , poi si sedette e prese a mangiare. Quanto era buona quella torta, era un momento da gustarsi solo con se stesso. Buongiorno Francesco, disse la nonna. Buongiorno. Ciao fratellino, fece Carla, e sorrideva tenendo in braccio il bambino. Ora non piange più? No, gli ho dato da mangiare. Il temporale della sera prima era svanito. Quella mattina faceva tanto freddo, ma c’era il sole. La radio trasmise una canzone natalizia e a Carla prese voglia di ballare. Vieni Francesco, balla con me. Bartolini s’alzò un po’ controvoglia. Sono troppo grande per fare ancora queste cose. Ma che sciocchezze! Vieni, balliamo. La musica prese ad andare. Valerio scese e prese in giro il cugino che ballava con la sorella, poi la nonna lo fece sedere e gli diede da mangiare. Sei proprio un bel ragazzo, Francesco, disse Carla muovendo il bacino a tempo di musica e facendo brillare i suoi grandi occhi azzurri. Sapete l’ultima? Sbraitò lo zio Romano entrando di soprassalto dalla porta semichiusa e sorprendendo tutti. Bartolini fece una faccia dubbiosa, oppure solo assonnata. Il figlio della fruttivendola s’è trovato una morosa, si chiama Martina. Ah, sì, e com’è, chiese Carla continuando a ballare e a sorridere. Oh, io l’ho vista solo una volta, disse lo zio, a me par carina, ma ha un naso che fa spavento. Capito Francesco? Fece la nonna. Tu trovatene una più bella.

venerdì 15 febbraio 2013

Il signor Domenica-ultima parte


Arrivò il sabato, il giorno che Berto tanto aveva atteso. Il pomeriggio telefonò a Stanley, parlarono del più e del meno. ad un tratto Berto disse che sarebbe andato di nuovo a vedere il Signor Domenica. <<Non ti ho chiamato perchè pensavo che non saresti voluto venire>> si scusò Berto con l'amico ed aggiunse <<Poi credo che quello voglia vedersi a quattr'occhi, sento che mi deve dire qualcosa. Ma dobbiamo sbrigarcela noi due>>, <<Parli come se vi doveste sparare>> disse ridendo Stanley <<Non preoccuparti, non mi andava di venire ad ascoltare ancora jazz, mi ha un po' stancato, ma sono contento che tu ti sia appassionato>>. Berto mise giù la cornetta, preparò i vestiti da mettersi, voleva essere raggiante. Indossò il miglior smoking che avesse, con tanto di fiore all'occhiello, si pettinò con cura i capelli e se li impomatò. Rimase diversi minuti a guardarsi allo specchio, scoprendò in sè una vanità sconosciuta. Se ne vergognò un poco, poi infilò il cappotto ,diede un'occhiata all'orologio e uscì di casa. In macchina ci mise pochi minuti a trovare il La Paz. Fu fortunato piuttosto a scovare un parcheggio libero in centro il sabato sera. Davanti al locale c'era una piccola folla di gente. Tutti erano accorsi per il Signor Domenica. Berto fece una smorfia sarcastica e si apprestò ad entrare. Una luce rossa illuminava stancamente la sala destinata al concerto. I numerosi tavoli erano tutti affollati. Berto prese posto, ordinò qualcosa da bere, poi venne disturbato da un soffio d'aria che gli penetrò nell'orecchio. Si voltò, vide Luna con gli occhi spalancati e sorridenti. <<Ho soffiato io>> disse e poi abbracciò Berto e si baciarono nella semioscurità. <<Tuo padre dov'è?>> chiese lui, <<Si sta preparando>> rispose Luna, <<Vuole che vada a parlargli adesso, prima del concerto?>>, <<No, meglio di no. E' meglio dopo>>, <<Va bene>> fece Berto e si sedette con vicino Luna e non riusciva a dirle niente per quanto era bella. Dopo poco entrò il vecchio. Si muoveva ,come al solito ,stancamente, e nascondeva lo sguardo sotto il solito cappello. Solo allora Berto pensò che non aveva mai visto bene gli occhi del Signor Domenica. Accolto da uno scrosciante applauso, il vecchio si sedette ed iniziò a suonare, muovendo piano le dita sulla tromba. Berto rimase sconcertato. La canzone che sentiva non era la solita con cui aveva aperto i due concerti precedenti, anzi, era proprio una canzone nuova. A Berto parve strano, e oltretutto la melodia prodotta dalla tromba era più malinconica del normale. Berto tremò, ma non fu un'emozione felice, fu paura. Le svisate della tromba parevano spari, spari che risuonarono nella testa di Berto, spari che il padre gli aveva raccontato di aver visto durante la guerra, gli spari con cui lui e tanti suoi commilitoni sparavano ai nemici e ai partigiani. Le note del Signor Domenica disegnarono nella testa di Berto i sentieri di montagna su cui si era combattuta quella maledetta guerra, e suo padre che aveva di fronte un partigiano e doveva decidere se premere o no il grilletto. Dopo pochi minuti non riuscì più a sopportare quella musica, abbassò la testa e mise le mani sulle orecchie. Luna si spaventò, <<E' successo qualcosa?>> chiese, ma Berto non rispose, <<Che hai?>> continuò lei, <<Niente>> fece lui con voce tremante, ma in cuor suo pregava il vecchio di smetterla con quella musica. Ma Mister Sunday non si fermava ,anzi, il dolore di Berto sembrava dargli forza. La canzone diventava ogni secondo più dura, più triste, sanguinava rabbia da ogni poro. Questo era il vero jazz, il jazz dei reietti e degli abbandonati, il jazz dei negri di campagna, la musica del diavolo, e il Signor Domenica pareva conoscerne tutti i segreti. Alla fine del primo pezzo il vecchio tossì, si alzò dalla sedia, parve barcollare, ma rimase in piedi e riprese a maneggiare la tromba. Il concerto durò a lungo e Berto rimase per tutto il tempo con gli occhi chiusi, soffrendo in silenzio e mentendo a Luna sulle sue condizioni. I brutti ricordi si mescolavano ad immagini infernali evocate da quelle note. Era una tortura. Minuto dopo minuto, a l'una di notte passata, il dolore iniziò a scemare. Si approssimava la fine. Quando fu concluso l'ultimo pezzo,il Signor Domenica fece un ghigno beffardo, rivolto al pubblico, e il pubblico rispose con un applauso, il più forte che Berto avesse mai sentito in vita sua. Il vero jazz, dall'anima sanguinante,lo aveva stordito, e se ne stava lì, vicino alla donna che amava, sentendosi prigioniero di una musica surreale. Quando il vecchio scese dal palco e si ritirò nel retroscena, Berto ricominciò a riacquistare i sensi. Luna lo accarezzava dolcemente. <<Devo parlare con tuo padre>> disse ansimando, <<Aspetta. C'è tempo. Se non ti senti bene...>>, <<No, devo parlargli>> tagliò corto e si alzò contando su tutte le sue forze. Quando riaprì gli occhi vide che il locale era già deserto. C'erano solo lui e Luna. Alla fine Berto, sentendosi di nuovo mancare, pensò fosse meglio prendere una boccata d'aria. Si fece accompagnare da Luna fuori dal locale. La notte gli piaceva: era fresca e arieggiata. Respirò a pieni polmoni, si sentì davvero meglio ,ma la paura non se ne era andata dal suo cuore. Fu solo un istante in cui riuscì a calmarsi, poi notò lo sguardo di Luna rivolgersi all'indietro, come se fosse arrivato qualcuno. <<State davvero bene insieme>> disse il vecchio con la sua voce roca e incatramata. Berto si sforzò di sorridere e lasciò che il fresco vento gli passasse tra i capelli. Ma ormai non era più solo con se stesso. Il Signor Domenica gli si fece vicino, senza nemmeno degnare di uno sguardo la figlia. <<Allora. Ti è piaciuto lo spettacolo?>> chiese. Berto annuì, ma il vecchio scosse la testa, <<Non mentire. Non ti è piaciuto. Ti ho visto, sai, stavi male, tenevi la testa bassa, ti davano fastidio le mie canzoni. Si vede che non ti piacevano>>, <<No, no>> rispose Berto <<Erano solamente diverse dalle solite. Sono nuove?>>. Il vecchio sorrise, fece un passo avanti, allargò le braccia. Intorno a lui la strada deserta, i palazzoni bui e dalle pareti sporche e cadenti, i lampioni illuminavano il marciapiede dove le ombre proiettate di Berto e del vecchio sembravano davvero toccarsi, abbracciarsi, legarsi in un valzer mortale. <<No>> fece il vecchio, <<Non sono nuove. Anzi, a dire la verità sono molto vecchie. Le ho scritte tanto tempo, addirittura più di sessant'anni fa. Sai quanti anni ho?>>, Berto scosse la testa. Luna si avvicinò a lui ,gli mise le mani sulla spalla sinistra, per consolarlo. Nemmeno lei sapeva cosa stesse succedendo. <<Guardali!>> fece ad un tratto il vecchio, indicando un gruppo di gatti randagi che frugavano fra la spazzatura abbandonata vicino ad un cassone. <<Cosa devo guardare?>> fece Berto, <<Loro!>> sbraitò il vecchio <<Senti come miagolano! Sono davvero dei teppisti, eppure i loro miagolii sembrano tanto, troppo onesti per una sera come questa, una sera, anzi, una notte, in cui abbiamo insieme un musicista maledetto e un assassino!>>. A Berto mancò il respiro, <<Che assassino? chi è ?>> chiese. Il Signor Domenica si avvicinò a Berto mentre dai tombini sulla strada iniziava ad uscire un denso fumo, fetido e nero. <<Sei tu l'assassino!>> disse il vecchio <<Non sei forse un soldato?>>, Berto fissò l'uomo negli occhi, scansò instinvamente Luna che si allontanò senza dire una parola. <<Io no. Mio padre era un soldato>>, il vecchio grugnì <<Allora tu hai ereditato la sua colpa>>, <<Che colpa?>> chiese esasperato Berto. Il Signor Domenica, con calma, fece cenno a Luna di avvicinarsi. Lei obbedì, tenendo lo sguardo basso. Berto si chiese se lei sapesse, ma lei non sapeva. <<Ti ho detto che sono nato in Italia?>> domandò il vecchio, Berto disse di sì. <<Sai che abitavo in un borgo di montagna? Io la tromba ho iniziato a suonarla molto tardi. All'inizio facevo solo il falegname e nemmeno troppo bene. Però con le persone ci sapevo fare>>. Il fumo continuava ad invadere la strada mentre il vecchio continuava a parlare. <<Ero davvero simpatico. Parlavo molto di più di quanto non faccia adesso, e avevo una famiglia. Avevo lei>> esclamò stringendo a sè Luna. Berto notò che le guance dell'uomo iniziavano a rigarsi di lacrime, una folata di vento gli fece volare via il cappello, rivelando il capo bianco e scompigliato. Ebbe pietà del Signor Domenica, l'ebbe per davvero e si sentì colpevole, anche se non lo era. <<Lei era mia figlia. Mi sorrideva ogni mattina, lavorava nell'orto vicino casa mia, scendeva in paese a fare compere, e combatteva insieme a noi partigiani, durante la guerra. Era brava a salire i sentieri , anche ad arrampicarsi, davvero brava. Poi un giorno ci hanno preso, ci hanno assalito, ed io mi sono inchinato di fronte al fucile dei tedeschi, di fronte al fucile degli italiani. Li ho pregati di risparmiarci la vita. Non ci hanno dato ascolto. Abbiamo combattuto, sai, abbiamo combattuto tanto. Abbiamo perso. Io sono scappato giù per la montagna ,ferito, sono scappato tenendo gli occhi chiusi. Ma Luna no. Luna è rimasta ed è stata uccisa, ho visto il momento in cui tuo padre la uccideva>>. Berto non disse una parola, ormai il vecchio era avvolto dalla nebbia nera, nell'aria risuonavano note e uno strano rumore, come di un treno in avvicinamento. Luna era lontana, insieme al padre. Berto si chiese se fosse mai esistita. Il vecchio non aveva però perso la forza di parlare e, nonostante il pianto, continuò rabbioso. <<Dopo la guerra sono andato in America. Non riuscivo più a vivere nel paese dove mia figlia era morta. Sono diventato un jazzista, ho scoperto che suonare la tromba alleviava il dolore, ma una sola cosa, credo, mi ha spinto ad andare avanti. Avevo voglia di vendicarmi e se hai del male nel cuore ,ebbene, il jazz te lo fa crescere ancora di più. Vedi l'inferno quando suoni jazz e la cosa più triste è che ti piace l'inferno che vedi. Non sai quanto tempo ho pregato il diavolo perchè riportasse mia figlia nel mondo ,così che io potessi attuare la mia vendetta. Ora ci sono riuscito. Tu hai visto mia figlia, hai parlato con lei, l'hai amata e continui ad amarla. Questo è quello che io ho perso. Ho perso Luna. Tuo padre è morto, ma io no ed adesso morirai tu nel modo in cui sarebbe dovuto morire lui>>. Il vecchio tirò fuori dalla tasca del lungo cappotto quella che sembrava essere una pistola. Berto la intravide fra il fumo, aveva voglia di scappare, ma sembrava paralizzato. Le sue gambe non riuscivano a muoversi, come se il fumo lo tenesse stretto per offrirlo al macello. <<Io non ho fatto niente!>> urlò <<Perchè devo morire io? Luna, perchè devo morire io? Luna, perchè non possiamo vivere insieme?>>. Luna lo guardava con un sorriso triste. Adesso quella ragazza sembrava davvero un fantasma. sapeva che suo padre avesse ucciso della gente, ma non avrebbe mai immaginato di subirne lui le colpe. Pensò per un solo istante se avesse potuto, in quel momento, vivere per sempre con Luna, amarla come si deve ad una vera donna. Avrebbe così espiato la colpa del padre, avrebbe pulito la sua memoria, avrebbe reso giustizia al Signor Domenica. Lo pensò sinceramente ed in quel momento Luna parlò. <<Sono morta, ma voglio bene a quest'uomo. Papà! Io gli voglio bene!>>. Il vecchio scrutò la disperazione di Berto, il fumo all'improvviso si infittì, il rumore del treno si fece sempre più insistente. Berto non lo potè vedere, ma il vecchio abbassò la pistola. <<Ti ho messo alla prova ragazzo, e anche se vorrei tanto ucciderti, tu non sei colpevole quanto lo fu tuo padre. Pace sia all'anima sua, ed anche alla mia. I patti vanno rispettati. Avevo promesso all'inferno un'anima. Ora mi toccherà dargli la mia, ma tanto sono vecchio e non ho molto da perdere>>. ,<<No!>< fece Berto con la vista annebbiata, non poteva vedere nient'altro che non fosse fumo e oscurità, le note ripresero a suonare. <<Mi dispiace>> continuò Mister Sunday, <<Ma devo prendere un treno per l'aldilà>>. Berto era chiuso nel buio, ma all'improvviso si accorse di poter muovere un braccio, poi una gamba, poi l'altra. Corse. Corse senza pensare. Corse solo per scappare, dietro e davanti a sè aveva buio e fumo, ma corse lo stesso. Corse ad occhi chiusi. Quando ,dopo molti minuti, li aprì, era solo in una piazza vuota, una piazza che conosceva. Era quella dove aveva parcheggiato la macchina. Infatti la sua macchina era ancora lì, l'unica in mezzo a tanti posti vuoti. Aprì la portiera, mise le chiavi nel quadro e partì. Arrivato a casa si gettò nel letto e si addormentò.
La mattina dopo fu svegliato da una telefonata. Era Stanley. <<Buongiorno. Come è andata ieri sera? Ti sei divertito?>>, <<Ah, sì, abbastanza, ma, senti, ti richiamo dopo. Ora sono troppo stanco. Ieri ho fatto tardi>> fece Berto e riattaccò. Avrebbe voluto rimanere a letto, invece si alzò , fece colazione, notò che era una bellissima giornata,anche se decisamente fredda. Indossò il suo cappotto più pesante ed uscì. LA strada era animata da un'insolita vitalità. Famiglie a passeggio con i bambini, ragazzi a gruppi che parlavano a voce alta. Berto fece una lunga passeggiata, respirando l'aria pura del mattino. Si chiedeva che fine avesse fatto il Signor Domenica. Si ricordava di esserlo andato a vedere la sera prima, di averlo sentito suonare canzoni molti tristi, ma poi gli pareva di essersene andato senza nemmeno salutarlo. Gran bravo jazzista il Signor Domenica. Berto gli augurò successo dovunque fosse andato a portare le sue note sognanti. D'un tratto vide un gruppo di ragazze ferme ad aspettare l'autobus. Ce ne era una che gli piaceva molto: aveva i capelli neri, gli occhi rivolti verso di lui. Indossava un vestito a fiori rossi e neri. Berto decise di rispolverare l'antico metodo per rimorchiare una ragazza. Si avvicinò con noncuranza a lei, proprio mentre arrivava il bus. <<Ci conosciamo per caso?>> le chiese così a bruciapelo, lei lo squadrò da capo a piedi, <<Credo proprio di no>> disse un po' stizzita. Berto allora sorrise nel modo più sincero che poteva, sgranò gli occhi davanti a lei. <<Potremmo iniziare a conoscerci adesso>> fece e la ragazza si sciolse. Sorrise anche lei, arrossì un poco, ma proprio in quel momento si fermò il bus e lei dovette prenderlo al volo. <<Scusa devo andare>> disse a Berto, ma lui la trattenne per un attimo <<Dove posso trovarti?>> domandò, lei salì sul bus, sorrise e fece <<Dove ti pare. Se vuoi cercarmi, mi troverai>>. Salutò e il bus partì. Berto mise le mani in tasca e riprese a camminare, fischiettando un motivo jazz.