Il Giorno di San Patrizio
(Questo è stato finora l'unico racconto che sia mai uscito dalle mura di casa mia. A voi il giudizio: sarebbe stato meglio tenerlo in camera da letto? Si invitano i lettori a commentare, sono ammessi tutti i tipi di insulti) Lo pubblicherò a puntate.
Un nome non è
qualcosa di assoluto. Ognuno di noi ha già un corpo che ci identifica,siamo
persone diverse per aspetto,per sentimenti, per intelligenza. Non abbiamo
bisogno di un nome da portarci addosso per tutta la vita, possiamo cambiarlo
quando vogliamo, possiamo mettercene uno elegante per far colpo su qualcuno,
possiamo sceglierne uno comune se non vogliamo essere notati. In fondo, avere
un nome invece che un altro è un po’ come cambiare vestito.
Così la pensava
Charlotte Banks, fin da quando era una bambina. Il suo nome lo aveva scelto la
nonna morendo, prima ancora che lei nascesse. Sua madre incinta era andata a
far visita alla genitrice agonizzante,che le aveva chiesto di esaudire un
ultimo desiderio, ovvero la possibilità di scegliere il nome del nascituro o
della nascitura. Se fosse stata un maschio, avrebbe dovuto chiamarsi Edgar.
Quando Charlotte lo scoprì si mise a ridere, poi pensò: ma alla fine che
differenza fa un nome, può essere così importante da cambiare a seconda se sei
maschio o femmina?
Mamma era troppo
impegnata per risponderle ad una domanda così inutile,allora Charlotte decise
da sola: un nome non vale nulla. Promise a se stessa che quando sarebbe
cresciuta avrebbe avuto tutti i nomi che potesse desiderare.
Charlotte aveva
sette anni e due occhi azzurri che più azzurri non si può. Con quegli occhi
,con la luce che emanavano, riusciva a bucare il sole, a vincere il buio, a
brillare da sé senza bisogno d’altro. Quando nelle mattine d’autunno il vento
tentava di colpire le sue pupille e si insinuava pericoloso sotto le palpebre e
le ciglia, a lei bastava uno sguardo per farlo fuggire. Finché arrivò un giorno
che il vento non scappò più, e Charlotte cambiò, cambiò per sempre, ed insieme
a lei il suo nome.
Charlotte si
svegliò una mattina, il rintoccare incessante delle campane della chiesa tagliò
a fette l’aria, attraversò la luce,ruppe i vetri alle finestre, annebbiò la
vista, colpì il sonno e l’innocenza di ognuno con pesanti martellate di
misericordia. Era l’ora della messa, era la Domenica. Charlotte
fu costretta ad alzarsi, sua madre venne in camera a vestirla, poteva sentire
suo padre urlare ai fratelli nell’altra stanza. Aveva gli abiti già pronti su
una seggiolina accanto al letto. Era fortunata Charlotte, perché aveva una
camera tutta sua, poteva saltellarci ,poteva rigirarsi nel letto tutte le volte
che desiderava, nessuno le avrebbe chiesto di dividere quel posto con lei.
La madre le mise
il corsetto che strinse forte alla pancia, poi le infilò qualcosa simile ad una
calzamaglia bianca, sopra cui sarebbe andata la camicia. Charlotte volle
mettersi la gonnellina da sola mentre la madre le allacciava le scarpe. Era una
gonna marrone scuro, quasi nera, con quella camicetta bianca stava davvero
bene. Charlotte si guardò nel minuscolo specchio che giaceva abbandonato sul
suo letto, si ammirò per bene, fece un sorriso,poi disse:sono pronta per
andare.
Ecco la seconda parte del racconto, sperando che la prima non vi abbia troppo annoiato...
Quello era un
giorno strano: non era solo una domenica,ma qualcosa di più. Era il 17 marzo,
il giorno di San Patrizio, il santo che scacciò i serpenti, il santo del pozzo,
di quel pozzo senza fondo che collegava la terra ai regni dell’aldilà, un santo
dall’aspetto imponente, dall’aria misteriosa, quasi un vagabondo armato di
vangelo, un eroe che Charlotte immaginava con le braccia allargate verso il
cielo, in un pomeriggio piovoso, perso in mezzo ai freddi pascoli
dell’entroterra.
Non tutti ci
credevano, a San Patrizio, qualcuno lo considerava un santo fra molti, un santo
normale, di consuetudine, niente di più. Ma Charlotte si, lei ci credeva più
che a ogni altra cosa, i suoi genitori le avevano insegnato a pregarlo quando
si sentiva sola,le avevano raccontato tutto di lui.
E’ strano,
pensava Charlotte, come io possa sapere tutto su di te,ma tu probabilmente non
mi conosca neanche,non riconosci la mia faccia in mezzo a quelle dei tanti che
ti lodano, eppure fai di tutto per accontentarmi, per accontentarci. Charlotte
lo ringraziava e credeva fosse l’unico uomo mai vissuto nella storia degno di
essere chiamato Santo.
Uscì con la sua
famiglia, tenendo la mano del papà, aveva gli occhi rivolti allo specchio del
cielo, in cui sembrava scorgere ancora i profili delle stelle
addormentate,reduci della notte. Attraversarono in un lento e solenne cammino,
la chiesa era a due passi, la gente sorrideva, salutava, qualcuno aveva il
giornale sotto braccio, qualcuno camminava con la sua amorosa, la sua consorte.
Il signore aveva aperto le porte della sua casa per quel giorno, il giorno di
San Patrizio.
I soldati
iniziarono a sparare,o meglio, nessuno seppe mai se fossero realmente soldati,
o banditi, o qualunque altra forma di uomini armati. Spararono sulla gente,
cercarono di colpire i più vecchi, uccisero i bambini; iniziò lo scompiglio, la
polvere si alzò rabbiosa, il sole fu celato da una grande nuvola di pallottole
cantanti, i secondi fuoriuscirono dal tempo e divennero attimi
fissi,interminabili. Spuntavano fucili da tutte le parti, Charlotte venne
sballottata da una parte all’altra della strada, vide gente cadere, vide i suoi
fratelli scappare, vide suo padre accovacciarsi verso di lei per proteggerla,
le urla della madre si confondevano con il brillare rauco degli spari. Il
perché di tutto ciò diveniva un problema secondario, che nessuno, nessuno si
pose. Solo i colpevoli si fanno questo tipo di domande.
Charlotte si
liberò dalla mano paterna,all’improvviso corse verso la chiesa, tutti la
rincorsero sfidando la furia della battaglia. Charlotte aveva visto una
bambola, una piccola bambolotta di pezza giacere abbandonata davanti alla
scalinata della cattedrale; la raccolse da terra, la scrollò per pulirla dalla
polvere, poi si girò verso i soldati: avevano bandiere dai colori sgargianti,
avevano scritte sulle guance, avevano medaglie al valore. Sparavano perché non
ci credevano, pensò Charlotte, e si allontanò in fretta. Forse a loro non
andava che quel giorno fosse una festa, forse ne volevano un altro,oppure non
volevano proprio festeggiare. Erano tanti giorni che combattevano in altre
città, tanti giorni che si sparavano, tanti giorni che oscuravano. Forse era
tutta colpa di San Patrizio, pensò, ma non riuscì a spiegarselo. Lo riteneva
troppo buono per poter essere responsabile di qualcosa.
Charlotte
raggiunse di nuovo suo padre che la stava cercando, si abbracciarono, il padre
la strinse forte al petto e pianse, in mezzo alla strada; erano soli. Charlotte
sussurrò “Papà, mi sa che questo giorno è andato sprecato”. Corsero in uno
stretto vicolo che si apriva sulla strada vicino casa loro, trovarono la madre
e i due fratelli, rimasero lì aspettando che la furia finisse. “Dove hai preso
quella bambola?” chiese a Charlotte la madre, lei disse che l’aveva trovata per
strada,non sapeva di chi fosse,ma l’aveva raccolta per poterla un giorno
restituire alla sua proprietaria. “E come farai a sapere chi è?” chiese uno dei
due fratelli, il più piccolo. Charlotte osservò la bambola, le sollevo i
capelli biondi di lana, scorse un nome “Mary”. Ecco! A lei l’avrebbe riportata,
avesse dovuto cercare tutte le Mary del mondo. Tutti le sorrisero, lei si
strinse alla bambola,la baciò, due lacrime le scesero dagli occhi,brillarono
più forte del sole e più forte dei proiettili.
Giunse
lentamente il tramonto e la guerra finì, Charlotte si svegliò da un lungo
sonno, in braccio alla mamma, disse che non sentiva più spari. I suoi fratelli
uscirono prudentemente dal vicolo, fecero segno che era tutto libero. La
famiglia tornò a guardare il cielo, tutti insieme; accanto a loro decine di
cittadini, di compatrioti, chi aveva il giornale in mano, chi si stringeva alla
sua amorosa, chi si baciava, chi si guardava le mani sporche di sangue, chi scuoteva
la testa, chi pregava San Patrizio
perché mai sorgesse un altro giorno così.
Il padre di
Charlotte si allontanò dalla famiglia, si avviò alla loro casa, aprì la porta,
la chiuse sbattendola forte, lo seguirono tutti.
“Andiamo via!”
urlò alla moglie mentre tirava fuori la valigia da sotto il letto, la gettava
sul letto ed iniziava ad aprire i cassetti. “Andiamo via e non torniamo più!”
La madre di Charlotte piangeva, chiedendosi continuamente perché. “Perché se
restiamo qui ci ammazzano, ed io non voglio morire da innocente!”. La valigia
fu pronta,Charlotte era sulla soglia della porta,scuoteva i suoi capelli
rossi,gli occhi erano spalancati, il padre quasi si spaventò vedendo quelle due
luci azzurre brillare così prepotentemente. Basterebbe solo qualcosa in più,
basterebbe un po’ più di pace, credeva Charlotte. Chiamò nella sua testa San Patrizio,
sorrise piangendo, si asciugò le lacrime. “Perché non te ne vai? Se sei tu la
causa di tutto, perché non te ne vai?” , la madre si avvicinò a lei per
consolarla, ma Charlotte corse via, non ne voleva sapere di parlare, non ne
poteva più, si chiuse nella sua camera, promise che da quel giorno in poi non
si sarebbe più chiamata Charlotte, il suo nome per lei non valeva più nulla,
era il nome di una bambina che venerava i santi e si reggeva alla mano dei
genitori. Non le andava più bene un nome così.
To be continued...
Terza puntata:
In realtà
dovette aspettare ancora un po’ prima di poter cambiare nome. Cinque giorni
dopo, il 22 marzo, salutava la sua città dall’alto della nave che partiva, i
suoi fratelli mangiavano patate in un cartoccio, sua madre la abbracciava
trattenendo le lacrime, il padre sorrideva, rivolto verso la direzione opposta.
Charlotte Banks, a sette anni che ricordi potevi avere da lasciare? Eppure si
dispiacque, tanto, fino al punto da chiudere gli occhi, e sussurrare ancora una
volta “Vattene, non ti voglio più”. La terra si allontanava e diveniva sempre
più dura e scura alla vista,mentre il mare morbido si colorava come il cielo in
quel giorno di neonata primavera. Le campane della nave rintoccavano cavalcando
il vento, che spirava verso ovest. I muri della città vecchia parevano
dissolversi, crollare, cedere il passo alla nebbia del passato che li ricopriva
a poco a poco. Charlotte smise di guardare lontano quando capì che la nave si
trovava in mare aperto, ebbe allora un poco di paura, si nascose sotto la gonna
della madre, si misero a giocare insieme. Quando smisero era già ora di un
nuovo tramonto, ed il mare aveva perso la serenità della prima mattina. “Quanto
manca alla fine papà?” chiese Charlotte in piedi sul ponte della nave. “Alla
fine di che cosa piccola?”, “Alla fine del male” rispose Charlotte. “Per quello
tutta la vita” fece il padre “Ma per ora accontentati di aspettare pochi
giorni”, “E’ quanto manca alla fine del viaggio ,papà?”, “Si piccola, si”.
Charlotte annuì,poi iniziò a camminare, passeggiò per un po’ sul ponte. Quando
il tramonto ebbe finito di agonizzare sua madre aprì la valigia che teneva
stretta fra le gambe in mezzo ai tanti emigranti dalle mani callose e generose.
Prese una candela, la accese, disse a Charlotte di venirle vicino. “Fra un po’
sarà ora di dormire” disse e le diede un bacio, Charlotte si accucciò ai suoi
piedi, frugò nella valigia aperta, voleva trovare qualcosa. “Che stai
cercando?” chiese la madre. “La bambola, la bambola di Mary”. L’aveva portata
con sé, perché non aveva trovato la proprietaria, e non poteva permettere che
qualcun altro rubasse quel giocattolo così bello. Un giorno o l’altro Mary
avrebbe avuto la sua bambola, poteva starne certa. Nascosta fra due paia di
calze, Charlotte la trovò, e ne fu immensamente felice. Se la strinse al petto,
baciò i suoi capelli biondi. Erano due bambine in fondo, due bambine senza
casa.
Charlotte
parlava a lungo con la bambola, tutti i giorni. Mangiava quel poco di patate
che le lasciavano i suoi fratelli, evitava di guardare il mare per non
piangere. Il padre le si avvicinava poco dopo l’alba, lei era già sveglia,
riceveva una piccola carezza, la sua guancia rabbrividiva al contatto con
quella mano grande e gelida.
Passò un mese,
forse di più, Charlotte non riusciva a tenere il conto dei giorni che
passavano. Si accorse che qualcosa stava cambiando quando senti una sirena,
forte, penetrarle nelle orecchie e rompere le nuvole in cielo, alzò gli occhi,
vide una colonna di fumo grigio sollevarsi verso il sole,in lontananza, dietro
la colonna un’intera città, enorme. Charlotte si stropicciò credendo fosse un
sogno, ma la madre la rassicurò, era tutto vero. Stavano entrando in un nuovo
porto, un porto straniero, insieme a tante altre navi, a tanta altra gente che
salutava quelle sponde con le mani in alto e con i sorrisi più sinceri che lei,
povera bambina, avesse mai visto. Il padre venne a prendere lei e i suoi
fratelli, la prese per mano, la portò verso la scala che conduceva fuori dalla
nave, la portava verso la terra promessa. Non riuscì a vedere più niente, tanto
era oppressa dagli altri uomini intorno a lei, così piccola, così bassa. Si
sentì travolta come da una piena di fiume, non riusciva più a controllare i
suoi movimenti, perse di vista i visi conosciuti, solo la mano paterna la
collegava ancora alla realtà. Nel suo vestitino bianco, con in testa il
cappellino dei giorni migliori, proprio come sua madre dietro di lei, Charlotte
ammirava il tramonto avvolgere la loro nuova vita che sorgeva, quando scorse le
divise dei poliziotti e delle guardie portuali le venne voglia di scappare.
“Sono amici, sta’ tranquilla” disse la mamma, e dietro i fratelli ridevano di
lei che non capiva.
Passò poco tempo
prima che la famiglia Banks entrò definitivamente dal novero degli emigranti a
quello degli emigrati. I capannoni industriali del porto emanavano un forte
odore di pesce, altri sapevano di petrolio, per terra tante macchie di colori
diversi. Charlotte pensava fossero disegni di bambini che venivano in quel
posto per giocare, nessuno le disse niente, lei continuò a crederlo.
Come si fa a
iniziare una nuova vita qui, dal nulla? Charlotte se lo chiedeva quanto
ascoltava la gente intorno a lei raccontare cose fantastiche, di oro che usciva
fuori dalla terra spontaneamente, grappoli di diamanti che crescevano sui
diamanti e sulle vigne intorno alla città, sogni incredibili divenire realtà,
palazzi sorgere dal fango, torri innalzarsi potenti al di sopra dei fulmini e
del cielo azzurro, toccare con la loro punta i raggi del sole e portarli per
sempre sulla terra. Tutto era possibile, ma Charlotte non riusciva a crederci,
nonostante ogni volta il padre lo ripetesse a lei e ai fratelli: un giorno
tornò a casa a notte fonda con una busta di carta, la poggiò sul tavolo,
Charlotte faceva finta di dormire fra le braccia della mamma, ma era sveglia.
“Ho trovato un lavoro” disse ,e diede un bacio a tutte e due. Che lavoro fosse
non si sa, ma di certo non faceva diventare ricchi. Il pranzo era sempre e
comunque fatto di patate, i vestiti erano quelli vecchi della patria natale.
Charlotte prima di addormentarsi parlava con la sua bambola, la pettinava con
le mani, la baciava, le chiedeva speranza, quella non rispondeva ma il suo
perenne sorriso era un conforto sufficiente per Charlotte. Ora lì, così lontana
dalla sua città, persa in quella metropoli, fra i grattacieli, le strade
sterrate con le fogne a cielo aperto, i palazzi ammassati pieni di persone, le
finestre piccole e gli scarichi delle fabbriche a due passi dalla dolce casa,
lì in quel posto come avrebbe fatto a trovare Mary? Charlotte pianse quando se
ne accorse, e chiese alla bambola “Come farò?” ,quella sorrideva in modo
innocente. “Ti terrò come se fossi mia, ti accudirò, ti vorrò bene fino a
quando tornerai da chi ti ha sempre avuto. Mary sarà il mio nuovo nome, così tu
non avrai nostalgia della tua vera amica, chiamami Mary d’ora in poi, pensami
come Mary e non ci sarà alcuna differenza, ti vorrò bene come te ne ha voluto
lei, e un giorno da lei tornerai”. Nella bruna notte straniera Charlotte si
addormentò abbracciata alla bambola, il giorno dopo quel nome non avrebbe avuto
più senso, quella casa non avrebbe avuto più senso, gli anni trascorsi insieme
alla famiglia, la guerra, i soldati che sparavano, il lavoro del padre, nulla
avrebbe avuto più senso; solo Mary avrebbe conservato i resti di un antico
qualcosa, solo quel nome.
Quarta parte:
Mary fuggì da
casa il giorno prima di compiere dieci anni;senza fare rumore aprì la finestra,
vide la scala antincendio di ferro arrugginito sotto di lei, saltò, la bambola
che aveva in braccio la cadde e si fermò sull’orlo della scala, Mary la
raccolse e se la strinse al petto, il suo cuore batteva piano per non svegliare
nessuno, i suoi occhi non brillavano per non togliere il sonno alla notte e la
gloria alla luna. Scese la scala mezza rotta, davanti a lei si aprì un vicolo
deserto, un vicolo cieco, a destra e a sinistra era chiuso da palizzate di
legno decorate con sacchi di spazzatura. Mary si avvicinò alla palizzata alla
sua destra, c’era un’asse di legno spezzata, la spostò, la ruppe del tutto,
fece passare il suo piccolo corpo in quel pertugio, tenendo la bambola per
mano.
Perché fuggì?
Mary non se lo seppe mai spiegare, molti anni dopo pensò che forse l’aveva
fatto per stanchezza, per noia o per capriccio, il suo unico capriccio in tutta
la vita. Era piccola, piccola davvero, e le era venuta voglia di stare da sola,
una voglia così forte da superare anche la paura. Sarebbe anche potuta
restare,ma a cosa sarebbe servito? Lei non era più Charlotte Banks, adesso si
chiamava Mary e la sua famiglia la teneva stretta per mano mentre si avviava verso
il dedalo di strade della città immersa nella notte morente.
Per quel giorno
avrebbe mangiato le patate che aveva portato in un cartoccio nascosto nella sua
piccola tasca, poi, dal domani, un altro modo di mangiare lo avrebbe trovato,
ai lati delle strade c’era sempre del cibo. Perché dovrei lasciarlo ai cani e
ai gatti? Pensava. Passò una settimana dormendo per la strada, evitando di
attirare gli sguardi della gente che camminava per le strade di notte, il
giorno camminava incessantemente, si faceva regalare qualche tozzo di pane dai
fornai, beveva l’acqua delle poche fontane, quando il sole tramontava cercava
un angolo nascosto, si sedeva ed iniziava a pettinare la sua bambola. “Anche
oggi è stato un giorno normale, speriamo vada sempre così” le diceva e poi
raccontava delle ore passate, del cammino che avrebbero dovuto fare il giorno
dopo. In dieci giorni arrivò dalla parte opposta della città, anche se lei non
poteva saperlo, pensava di non allontanarsi mai, perché i visi che vedeva
camminando erano sempre gli stessi, occhi bassi, duri,malvagi.
Mary invece
teneva i suoi occhi azzurri alti, nella sua costante sfida contro il cielo, non
sorrideva,ma dentro di sé avrebbe avuto voglia di saltare, di cantare, di
correre per quelle strade polverose ,di rovesciare i carri pieni di sacchi, di
buttare a terra le persone che le davano fastidio, di rubare le patate cotte
dai chioschi che le vendevano, di nascondersi dietro ad un cavallo e fare le
boccacce a tutti quelli che passavano. Così passavano i giorni di Mary,
sognando, rubando qualche patata, pettinando la sua bambola e parlando con lei.
Qualche volta capitava che si chiedesse quale giorno stesse vivendo, le veniva
voglia di tornare a considerare il tempo, ma si rendeva conto che era inutile
per lei, vagabonda di giorno e creatura addormentata di notte, era inutile ,non
aveva date da rispettare, non aveva giorni per festeggiare né per piangere.
C’era però un giorno…un giorno che avrebbe voluto ricordare, il 17 marzo, il
giorno di San Patrizio. Lo aveva maledetto, se lo ricordava bene, ma a lungo
andare, mentre le ferite andavano cicatrizzandosi, si rese conto che lo adorava
ancora, e avrebbe voluto fargli una preghiera, un semplice canto con la sua
voce candida, il 17 marzo. Si svegliò Mary una mattina e vide un albero di
fronte a lei che lanciava sul suo corpo piccoli pollini, brandelli di fiori.
Respirò l’aria profumandosi l’anima, strinse nella mano un pugno di quei semi
volanti,prese la sua bambola, li fece respirare anche a lei,sorrisero tutte e
due abbracciandosi. Quanto tempo era passato dalla sua fuga? Mesi,anni, chissà.
Quel giorno però le annunciava qualcosa di nuovo, si immerse come di consueto
nella vita di strada, notò che il cielo era ancora freddo e cupo, non era
ancora scoppiata la fede nella primavera. Fermò un vecchio che camminava
zoppicando. “Che giorno è oggi signore? Me lo dica per favore!”. L’uomo la
guardava dall’alto con due spessi occhiali, aveva grandi baffi bianchi, delle
mani rugose e delle gote cascanti. Il suo sguardo era celato dalle lenti, le
sue intenzione erano coperte dalla vecchiaia che tutto confonde e tutto fa
sembrare più placido e sereno. “Oggi è il primo giorno di primavera piccola,
oggi è 21 marzo”. Era iniziata la nuova stagione, ma a Mary non interessava,
scoppiò a piangere, si disperò per aver perso solo di pochi giorni la
possibilità di venerare il suo santo. Quando il vecchio le chiese perché
piangesse lei rispose “Per San Patrizio” innaffiando il suo vestitino
stracciato e la sua bambola di lacrime dense come una crema.
Il vecchio le
accarezzò i capelli sporchi e appiccicosi, dal colore rosso scuro, rosso
smarrito. “Cos’hai?” chiese e Mary non rispose, si allontanò. L’uomo la fermò
prima che potesse scappare, la invitò a parlare di nuovo, si tolse gli
occhiali, si chinò a fatica, prese la mano di Mary, lei guardò impaurita, disse
“San Patrizio” ancora una volta, il vecchio annuì, si toccò la barba bianca
,poi si rialzò tenendo Mary per mano. “Vieni con me” le disse, Mary si lasciò
guidare. Camminarono a lungo ,camminarono fino al tramonto, senza fermarsi mai.
Quando si fermarono e Mary guardò di fronte a sé, vide le ultime case, gli
ultimi confini della città, baracche costruite col fango e con le lamiere,
bambini che giocavano a rincorrersi, genitori stanchi che li rimproveravano.
Dietro,alle sue spalle , giganteggiavano gli edifici di mattoni, le automobili
che facevano a gara con i carri, gli uomini in bombetta, la folla quotidiana,
le fabbriche, gli uffici, i rintocchi delle campane comunali.
“Fermati qui”
disse a Mary il vecchio e tirò fuori qualcosa dalla tasca della giacca,una
scatoletta di cerini, la diede a Mary,poi si chinò a terra ,raccolse qualcosa,
un mozzicone di candela, si allontanò. Quando i bambini lo videro si
rifugiarono subito nelle loro case, le porte si chiusero, la piazzetta sterrata
su cui batteva l’ultimo e stanco sole di quell’inizio di primavera fu occupata
solo dal vecchio;raccolse da terra un vecchio ceppo di legno che fungeva da
sgabello, ci mise sopra la candela, si rivolse a Mary, le fece segno di
avvicinarsi, lei obbedì. Quando fu davanti al ceppo, Mary aprì con le sue
manine la scatola di cerini, la fece cadere per terra, ne rimase solo uno,
nella sua mano, nell’altra aveva la bambola. Si chinò a raccogliere la scatola,
provò ad accendere il cerino, non ci riuscì, le venne da piangere. Il vecchio
la aiutò, guidò la sua mano delicatamente, la terza volta apparve una
fiammella. Mary lasciò la scatola di cerini, alzò la bambola per farla
guardare, allungò la mano verso quella candela, cercò di guardare lo stoppino,
gli diede fuoco.
“Adesso recita i
tuoi canti” fece il vecchio, Mary iniziò a cantare, sorridendo, senza fermarsi
più.
Smise che la
notte era alta, il silenzio era assoluto, il vecchio non c’era più. Era sola
Mary, sola in quel giorno di primavera, i suoi occhi azzurri erano ingranditi
dalla luce della candela che pareva proiettare i colori del suo iride nel
cielo. La città dietro di lei brancolava senza speranza nell’oscurità, nemmeno
i lampioni che illuminavano i quartieri notturni potevano rischiarare quella
massa informe di sogni e destini incrociati. Rintocchi di campane lontani
annunciarono a Mary l’inizio di un nuovo giorno, la luna venne coperta da una
nuvola passeggera, ora nell’universo brillavano i suoi occhi azzurri, e nessuna
stella poteva rivaleggiare con loro. Soffiò sulla candela ,la spense, la prese
con una mano e la buttò via, si sedette su quel ceppo ad osservare il cielo,
con la testa alta, la bambola sorridente sulle gambe, il cuore che andava
veloce,si lasciò andare ad un’altra recita, ad un altro canto. “Così sarà per
sempre” fece Mary e chiuse le palpebre. Il mondo si spense.
Si fermò a
vivere in quel luogo. Nella piazzetta conobbe i suoi nuovi compagni di
giochi,conobbe una madre che ogni giorno doveva andare a lavorare, a lavorare
lontano. Aveva una bambina piccola,appena nata, e non se ne poteva occupare.
“Se volete, lo farò io” le disse Mary, e così ogni settimana ,tutti i giorni,
raccontava storie alla sua bambola e ad un’altra bambina, sorrideva insieme a
loro, e la domenica riceveva un soldino in pagamento, una moneta piccola,
opaca, ma era sua. Le metteva sempre in tasca e quando si addormentava ai lati
delle stradine le proteggeva con la sua mano.
Quinta parte:
Mary crebbe ed
insieme a lei la città. Quelli che un tempo erano quartieri di estrema
periferia furono inglobati in un grande oceano di cemento e mattoni. Chissà
dove erano allora i suoi genitori? Chissà dove i suoi fratelli? Mary se lo
chiedeva pensando a cosa avessero mai detto quando scoprirono che lei era
scappata, a cosa avessero mai fatto per cercarla; ma la città era grande ,erano
tanti mondi diversi messi assieme, e passare da un mondo all’altro non era
sempre così facile. Il porto, da dove abitava Mary, era un punto lontano che
non si riusciva a scorgere, se ne sapeva solo l’esistenza, nulla di più. Tutto
era cambiato e si era fatto diverso: anche il corpo di bambina presto dimenticò
la sua pudicizia e si fece più audace. Sorsero come dal nulla due seni perfetti
e ben formati, e non smisero di crescere e di illuminare i giorni, i capelli si
fecero più lisci, il rosso acceso dell’infanzia sparì per sempre, cedette il
passo ad un colore bruno chiaro. Quando Mary si lavò per la prima volta dopo
tanto tempo, un giorno d’estate, scoprì con meraviglia quale diafana seta
zuccherina aveva per pelle. Si tagliò le unghie e si insaponò i capelli,
asciugandoli al sole. Era cambiata Mary, ma i suoi occhi erano rimasti
uguali,l’azzurro intenso di quei due cieli privati era immutato ed immutabile.
Mary si vantava dei suoi occhi quando la sera parlava con la bambola: si
vantava che tutti e due non sarebbero mai invecchiata, la signorina bionda di
pezza rispondeva come suo solito, con la stessa sacra espressione, con lo
stesso sorriso. Ora Mary non parlava più solo con lei, anche se la portava
sempre con sé, aveva imparato a raccontare le sue storie, le sue giornate anche
ad altra gente,aveva scoperto che tanta gente le voleva bene e desiderava stare
con lei. Un giorno che aveva appena finito di accudire la solita bambina ed era
uscita per la strada incontrò un ragazzo, poco più grande di lei. Aveva i
capelli neri ,gli occhi timidi e scuri, l’andatura indecisa. Mary sorrise
vedendolo arrivare, a quello si arrossirono le guance. “Ti andrebbe di passare
la serata con me?” chiese quello, Mary pensò un poco, non ne aveva tanta
voglia. “Mi dispiace, ma ho già da fare”. “Ti prego, ti prego” continuò il
ragazzo, Mary scosse la testa chiudendo gli occhi. “Posso pagarti se vuoi” fece
lui disperato, tirò fuori dalla tasca una banconota che Mary non aveva mai
visto. Le voleva così bene che era disposto a regalarle dei soldi pur di stare
con lei? Mary si stupì, si sedette per terra, il ragazzo la imitò. Non poteva
rifiutare una serata a qualcuno che la amava così tanto, accettò l’invito, e
non fu l’unico. Mentre i giorni si accumulavano ed i suoi seni crescevano,
sempre più ragazzi si presentavano e tutti le dicevano di volerle bene, ed
avevano banconote belle e pulite nella mano. In fondo era meglio vivere così
che passare le giornate ad accudire una bambina capricciosa. Smise di ricevere
la moneta opaca ogni domenica, iniziò ad uscire tutti i giorni, con lo stesso
vestito, con i capelli sciolti, ogni volta con un ragazzo diverso. “Se mi
vogliono bene tutti, che ci posso fare io? Devo rifiutare i regali che mi fanno?”
diceva Mary alla sua bambola quando le parlava di notte, prima di dormire. No,
non poteva rifiutare, e in fondo non le costava nessuna fatica, solo qualcuno
le chiedeva di impegnarsi un po’ di più, ma neanche tanto. Il lavoro che le
chiedevano di fare l’aveva imparato in fretta, dopo una o due volte. Si
trattava solo di ripeterlo, farsi un bagno dopo aver finito, prendere la
banconota ed uscire dalla camera.
In pochi mesi
Mary mise da parte i soldi per affittare una piccola stanzetta in un grande
palazzone. C’erano tante ragazze in quel posto,ma nessuna guadagnava come lei.
Poteva permettersi un piccolo bagno, poteva permettersi due vestiti invece che
uno solo, poteva permettersi una spazzola. La sera pettinava sempre la bambola,
non se ne dimenticava mai. I suoi capelli non le interessavano, preferiva
quelli della sua compagna di giochi. Iniziò ad abituarsi ai rumori, alle scale
che traballavano sotto i colpi dei cavalieri che venivano da lei. Prima di
riceverli, si concedeva uno sguardo rivolto alla finestra aperta, lasciava che
entrasse l’aria fresca della sera, mentre i suoi occhi già riempivano la stanza
con fulmini e profumi, e il suo viso candido e silenzioso si preparava ad una
nuova notte di lavoro. Mary era la migliore fra tutte, era la massima
tentazione e nemmeno particolarmente esosa. Nel suo viso ormai di adolescente,
guardandosi nello specchio, si compiaceva del suo successo, del denaro che
metteva da parte, si compiaceva di come la guardavano gli altri. Un giorno
,svegliandosi, trovò la bambola ai piedi del letto. Pensò che forse si era
mossa nel sonno e l’aveva fatta cadere. La prese in mano, le accarezzò i
capelli biondi, studiò il suo sorriso. “Perché mi devo chiamare Mary? Perché
devo rubare il nome alla tua prima padrona? Non mi va più di chiamarmi Mary, io
non sono Mary. Agli uomini la sera non piace che io sia Mary, penso che
preferirebbero qualcosa di più audace.”. La bambola dal viso invecchiato ma
ancora tenero fissava la ragazza nei suoi occhi azzurri, sembrava dirle
qualcosa “Tu sei la migliore, sei la più bella di tutte”. Mary si alzò dal
letto, si sentiva più stanca di quando era andata a dormire, e non sapeva
perché. Si mise il suo vestito migliore, si mise il suo cappello migliore ed
uscì ,da sola. Salutò la bambola che restava sul letto a riposare. Per strada
un uomo si avvicinò a lei: era bellissimo, aveva i capelli dorati, gli occhi di
un verde chiaro e appariscente, la barba appena accennata. Era un giorno
d’inverno, ma il sole brillava piacevolmente e donava un po’ di calore alla
città. Il ragazzo si vergognava a parlare,Mary ci era abituata così lo
invogliò. “Su, che mi vuoi dire?”, “…questa sera vorrei passare da te, se non
hai già impegni, Mary”. Lei sorrise, capì subito che per lui era la prima
volta, annuì, poi, mentre se ne andava, gli disse “Non chiamarmi Mary, non mi
piace più”, “E allora come vuoi che ti chiami mia regina?” esclamò il giovane
in un impeto di passione. Fu così che Mary divenne la Regina , e Regina si fece
chiamare da quel giorno in poi. Il nome le pareva altisonante, si sposava bene
al suo aspetto, era il nome migliore che potesse sperare. Quello stesso
pomeriggio ,tornando nel suo palazzo, tolse il cartellino da sopra il
campanello, poi uscì di nuovo in strada, entrò in un negozio e comprò una
bellissima targa in ottone con su scritto il nuovo nome. La affisse alla porta
di casa, la casa di Regina. Quella sera guadagnò bene e anche quella dopo,
tutte le notti d’inverno furono per Regina un continuo viavai di
uomini,impermeabili e cappelli, cravatte e pantaloni di velluto. Alla fine di
ogni turno metteva i suoi guadagni in un cassetto, dentro ad un sacchettino di
seta rossa che aveva comprato il Natale prima. Fu una bella stagione per
Regina, un lungo ed indimenticabile inverno. Le sere in cui non aveva da
lavorare si divertiva ad uscire, si faceva accompagnare da qualche ragazzo nei
locali più prestigiosi, ordinava da bere le cose più costose e lasciava che
pagassero gli altri. Quando era da sola nella sua casa e magari fuori pioveva,
accendeva una sigaretta e ,sdraiata sul letto, parlava con la sua bella
bambolina. Fuori la città grugniva,a notte fonda. Oramai le luci dei lampioni
erano così belle e potenti che quasi ci si svegliava la sera per uscire e poi
veniva sonno a guardare il timido sole della mattina. I palazzi erano diventati
sempre più alti, la casa di Regina,un tempo periferia, era divenuta centro,
contornata da uffici,negozi, palazzine, ville, chiese. Il porto era
dimenticato. Regina non voleva andarci mai, quando usciva se ne teneva sempre
alla larga, aveva un po’ di paura, non vergogna, solo paura. Aveva paura di
incontrare suo padre invecchiato, con i capelli bianchi che trascinava dietro
di sé la stessa valigia che aveva quando attraversò il mare, paura di vedere i
suoi fratelli sposati a delle belle straniere, paura di vedere sua madre stanca
passare le sue giornate sulla sedia del salotto e guardare i vestiti di sua
figlia Charlotte. Regina aveva paura di questo, e non riusciva ad affrontarlo.
Conosceva la sua strada,era quella che portava al letto e a quel sacchettino
rosso. “Magari un giorno me ne andrò” diceva alla bambola che le sorrideva. Ci
pensava ad andarsene, ma sapeva che era ancora troppo giovane.
Sesta parte:
Regina divenne
più grande, divennero più grandi i suoi clienti, più potenti, più ricchi. Non
si poneva molte domande su chi fossero, cosa facessero nella vita, se fossero
malviventi o governatori federali, non le interessava. Il giorno del suo
ventiduesimo compleanno Regina comprò l’appartamento accanto al suo,
abbandonato dalla proprietaria. Spese gran parte dei suoi risparmi, fece
abbattere il muro che divideva i due locali, li fece imbiancare, arredare con
mobili nuovi e nacque così una nuova reggia, una tutta sua di cui poteva andare
fiera. Quando se ne andarono gli operai per l’ultima volta e Regina vide i
tappeti per terra, i quadri alle pareti, strinse forte la bambola al petto,
pianse sinceramente, gli occhi brillarono ed illuminarono anche le lacrime. “Vedi,
vedi cosa ho fatto?” disse alla sua compagna di pezza, e non riusciva a
smettere di ridere. Non si era mai sentita più felice. Entrò ,chiuse la porta
dietro di sé, si tolse le scarpe, andò in camera da letto e si sdraiò. I suoi
capelli si erano fatti più scuri e più lisci, andava dal parrucchiere ogni tre
settimane, le sue mani erano lisce anche se stanche come non mai. Il suo viso
non era cambiato tanto, era quello della solita bambina. “Non tornerò più
indietro” sussurrava Regina alla sua bambola sorridente.
Indietro non ci
tornò più, ma i giorni che passavano sempre più veloci iniziarono a mostrarsi
con sempre maggiore difficoltà ed i risvegli divennero più affannosi. Alcuni
fra i clienti più fedeli iniziarono a pretendere da lei qualcosa di più,
qualcosa che lei non aveva potuto prevedere. Doveva incontrarli quasi tutti i
giorni, doveva mangiare con loro, doveva ridere e scherzare con loro. Qualcun
altro iniziò a farle visita nei giorni di festa, e chiedeva da lei un piccolo
regalo che chiamavano tassa,altrimenti non avrebbe più potuto lavorare. Regina
non lo capiva, non dava fastidio a nessuno, perché volevano così tanto da lei? Le
serate che passava fuori si trascinavano più a lungo, le parole che pronunciava
si omologavano sempre di più, i vestiti che portava furono così tanti che perse
il conto. Pagava più di metà dei suoi guadagni per evitare che le bruciassero
casa, che la picchiassero e che la facessero prigioniera. Non le piaceva ma
doveva adattarsi, credeva che in fondo potesse sopportare quel sacrificio,
guadagnava bene e sempre meglio.
Quello che le
dava più fastidio era l’idea di doversi annoiare per il suo lavoro. Si svegliò
una mattina di fine inverno, si lavò la faccia, osservò gli occhi piangere
senza che lei fosse triste, non ce la faceva più. Il sacchetto rosso di seta
era buttato sul pavimento, aperto e vuoto, lo specchio del bagno era rotto e
sporco di sangue, la bambola ferma sul letto, le sorrideva ,i capelli biondi di
lana erano così sporchi che sembravano castani, il vestitino era ridotto ad uno
straccio ,un saio monacale che evocava ricordi antichi. Regina era stanca,
negli ultimi due mesi aveva dormito meno di tre ore per notte, si svegliava
quando l’alba era appena arrivata, le veniva una voglia matta di aprire le
finestre e gettarsi giù. La minacciavano ,le facevano arrivare a casa delle
lettere che lei bruciava, ma prima di bruciare le leggeva. Le parole che doveva
ingoiare divenivano sempre più grosse. I suoi risparmi si erano dissolti,per
sempre, nel nulla, avevano nutrito schiere di affamati uomini di commercio, di
aguzzini e di strozzini organizzati, volevano costringerla ad andare da loro, a
inchinarsi ,a mettersi sotto la loro protezione. Regina non voleva, perché lei
era la più bella e non si poteva abbassare a simili nefandezze. La primavera
quella volta risvegliò anche i suoi occhi insieme ai fiori, quando si vide nei
ritagli di specchio le sue pupille rimpicciolirono fino a divenire due spilli
appuntiti.
Uscì di casa
nascondendo nel suo cappotto la bambola sorridente, guardò la strada di fronte
a sé, era piena di auto, i carri di una volta non c’erano più. Le madri
accompagnavano i bambini a scuola, gli uomini si dirigevano al lavoro, i tram
passavano spesso ed erano tutti pieni. Regina attraversò la strada asfaltata,
si lasciò incantare dalle vetrine dei negozi, si aggiustò sulla spalla la sua
borsa vuota. Continuò a camminare veloce, senza mai che i suoi passi
balbettassero sugli alti tacchi che portava. Non aveva intenzione di tornare a
casa tanto presto, voleva visitare la città da sola, senza nessuno che la importunasse
con le sue richieste, senza che fosse costretta a ridere a comando. Ascoltava i
rumori dei clacson, i rombi dei motori, le voci acute degli strilloni, tutto
ciò le sembrava strano e consueto al tempo stesso. Quel cielo pieno di fumi e
di rumori le ricordava quello tempestato dalle pallottole che aveva ammirato in
un lontano giorno di marzo, il 17 marzo. Anche oggi è marzo, pensò Regina, ma
non sapeva che giorno. Scrutò fra i visi della gente cercando qualcuno di cui
potersi fidare ,qualcuno a cui poter chiedere qualcosa. Non trovò nessuno,
allora continuò ad andare, fino a che i palazzi si fecero più moderni, più
puliti, la gente diminuì, iniziò a sentire l’odore del mare, le strade si
aprirono agli sguardi del sole. Doveva essere mezzogiorno quando giunse al
porto, i moli erano di fronte a lei, c’erano tante persone, ma nessuno che le
ricordasse suo padre o i suoi fratelli. Era normale, in fondo non sapeva
neanche che lavoro facessero, non poteva essere sicura che fossero lì. Qualcuno
di cui fidarsi però lo trovò, qualcuno che le fece un gesto. C’era un vecchio
seduto sulla banchina, osservava il mare lontano; si voltò all’improvviso, vide
Regina in piedi davanti al molo, alzò il braccio e le disse di avvicinarsi. Lei
non rispose subito, ma qualcosa la attirò, qualcosa le fece compiere il primo
passo, qualcosa le fece accendere gli occhi. Lei quel vecchio l’aveva già
conosciuto, era lo stesso che le aveva regalato un cerino ed un mozzicone di
candela per pregare San Patrizio, era lui, sicuramente. Il suo aspetto era
immutato nonostante gli anni, di questo Regina si spaventò,ma poi, vedendo lo
sguardo affettuoso e caldo,non riuscì a fare a meno di obbedirgli.
“Sei arrivata
ancora tardi piccola” fece il vecchio quando Regina si avvicinò. “Dimmi che
giorno è oggi,dimmelo per favore!” chiese Regina. “Oggi è iniziata la
primavera, non senti l’odore dei fiori spandersi nell’aria serena, non lo
senti?”. Regina scoppiò a piangere, si era dimenticata ancora una volta di
cantare per il suo santo preferito, portò le mani al volto, la bambola uscì dal
cappotto e cadde per terra, il vecchio la raccolse, la accarezzò. “E’ molto
bella” disse, “Non è mia” rispose Regina e le venne allora la voglia improvvisa
di prendere quella bambola in mano, di stringerla, di baciarla. Le spostò i
capelli, osservò quel nome scritto a matita ma ancora leggibile, “Mary”. Quella
bambola era di Mary, lei aveva promesso di riportargliela. Il vecchio si alzò,
abbracciò regina, le toccò i capelli con delicatezza, le fece un sorriso. Lei
rispose con i suoi occhi lucenti, soffiò lentamente, il suo sospiro fece tre
giravolte nell’aria ,poi si condensò e si posò a terra in una piccola
pozzanghera di acqua calda. Regina sorrise,salutò il vecchio, teneva la bambola
per mano, si allontanò dal porto camminando all’indietro, con gli occhi fissi
verso il mare. Il grande tappeto trasparente dell’acqua, solcato ogni giorno da
navi e battelli d’ogni genere. Regina non aveva mai pensato all’idea di poter
tornare a casa, fino a quel giorno. Avrebbe solo dovuto fare un altro viaggio,
mettere piede su una terra che l’aveva allevata, dove nessuno avrebbe potuto
riconoscerla e parlarle. Sarebbe stata una straniera come tante. Regina guardò
la sua bambola, “Secondo te dovrei tornare?” chiese e quella sorrise.
Settima Parte:
Settima Parte:
Regina tornò a
lavorare,giorno e notte;ignorò le stagioni, ignorò il sole e la luna, si
dimenticò delle stelle. Si dispose a passare le notti con gente di ogni
sorta,chiunque fosse disposto a pagarle una moneta, un altro passo verso il
grande viaggio. Si trasferì nelle zone più periferiche della città,
abbandonando la sua dolce casa. Era sempre Regina, e tutti volevano stare con
lei. Affittò un altro piccolo appartamento, lo arredò semplicemente, si portò
dietro il sacchetto di seta rosso, iniziò a riempirlo. La sera non scordava mai
di accendere una candela e di cantare una canzone prima di accogliere i suoi
clienti. Pensava tanto Regina e parlava con la sua bambola. “Fra poco torneremo
a casa” le diceva sempre, poi la baciava, i suoi occhi si riempivano di lacrime.
Si lasciò crescere i capelli, non volle più coprirli con i cappelli, a poco a
poco tornarono a farsi rossi. Regina pensò fosse merito del sole che in quei
mesi brillava continuamente e con una forza mai vista prima. Quando la mattina
si alzava, Regina aveva ancora l’abitudine di guardare fuori dalla finestra, e
dal suo angolo ai confini del mondo, riusciva miracolosamente a scorgere il
mare. Cadevano le stelle, cambiavano le costellazioni, cresceva la città, ma
lei rimaneva ferma,in quella povera stanza, ad aspettare gli amanti infedeli
desiderosi d’amore. Il suo sacchetto di seta presto si riempì, Regina sfogliava
le banconote ogni sera, le toccava fino a consumarle, accanto a lei teneva la
bambola sorridente. Prima di dormire fumava una sigaretta in silenzio
affacciata alla finestra, sognando di poter guardare oltre l’orizzonte.
Fumando piano,
Regina si preparava al nuovo anno, alla nuova primavera. Presto anche la sua
nuova dimora fu circondata dal cemento, fu presa d’assalto dagli uomini
d’onore, che tornarono a chiederle un regalo. Ma non era più tempo per
discutere,Regina non aveva più voglia di parlare. Fece le valigie e lasciò una
banconota sulla soglia della porta, chiuse la porta, si strinse la bambola al
petto, scese le scale ,salutò la portinaia addormentata. Era mattina, una
mattina di dicembre, forse era anche Natale. Regina non lo sapeva e non le
interessava. Appena fu in strada alzò la mano per chiamare un taxi e un
elegante macchina nera si avvicino. “Al porto” fece lei e allungò all’autista i
soldi per la corsa,in anticipo. Ormai non aveva più la paura di una volta,
paura di rivedere l’antica sua famiglia. Si sentiva sicura che ai loro occhi
sarebbe apparsa come una sconosciuta. Era un giorno dal cielo azzurro, dove le
poche nuvole incidevano sul piano infinito dell’universo racconti e poesie dei
bei tempi andati, dove il vento raccontava le sue storie d’oltreoceano. Gli
occhi di Regina brillarono come non mai quando scese dalla macchina e osservò
davanti a lei l’imponente esercito di navi pronte a partire. Erano passati nove
mesi da quando il vecchio marinaio le aveva fatto venir voglia di tornare a
casa, ma Regina non sapeva cogliere il senso del tempo. Per lei non faceva
differenza un giorno o tutta la vita, tutto il passato erano ricordi belli e
meno belli che le scombussolavano la mente. “Quest’anno parto in anticipo, per
non rischiare di arrivare in ritardo” disse Regina alla bambola tenendola in
mano; le aveva pulito i capelli di lana che erano tornati biondi come una
volta, come nei giorni antichi. Regina aveva ventisette anni e si sentiva un
poco vecchia, voleva dare fondo alle sue energie per quel viaggio, poi non
sapeva se le forze sarebbero bastate per programmare di nuovo tutto il futuro.
In quella
mattina di dicembre Regina comprò un biglietto per il continente lontano, per
la sua patria. Controllò la sua borsa: aveva ancori soldi sufficienti per
sopravvivere qualche tempo in terra straniera. Si sarebbe fermata il tempo
necessario per trovare Mary e consegnarle la sua bambola, quella che aveva
raccolto da terra in un giorno di guerra e che aveva gelosamente conservato.
Voleva mantenere la sua promessa, si preparava a viaggiare.
Così Regina
viaggiò, si imbarcò il giorno successivo su una nave passeggeri, insieme a lei
c’erano tanti altri emigrati che tornavano a casa per un mese, due mesi, tutta
la vita. Pochi soldi avevano in tasca e,come lei, mangiavano patate cotte
chiuse in fogli di carta vecchia. I loro visi erano simili a quelli che aveva
visto durante il suo primo viaggio, solamente erano più invecchiati. Anche
Regina era invecchiata, era una donna e guardava il mare con sprezzo del
pericolo, aveva conosciuto la vita e sapeva quali erano le cose giuste e quelle
sbagliate. I tramonti sul mare furono la cosa migliore che Regina godette
durante quei giorni: verso le cinque di sera, come segnava l’orologio di bordo,
il sole decadeva come un millenario impero stanco della sua potenza. Questa
volta i miei occhi non riusciranno a superare il cielo, pensava Regina e,forse
,aveva ragione.
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