mercoledì 27 novembre 2013

Il punto di vista dell'attesa



Quell’orologio gliel’ho comprato per Santa Lucia. Quante volte ha segnato i secondi senza che me ne accorgessi. Ora invece sto ipotecando ogni attimo vero in cambio dell’illusione del tempo. “Che dice il giornale?” le chiedo, e mi risponde le solite cose. Sta facendo dondolare il piede dalla pantofola bianca. L’ultima volta che mi è piaciuta una cosa del genere è stato due anni fa. Oggi torna a piacermi. “Quando arriva Valeria?”. Devo chiederlo di nuovo per avere una risposta. Valeria passerà alle quattro. Sostanzialmente tra sette ore. Forse dovrei parlare con Valeria. Ma sarebbe prevedibile. In realtà ,di questi tempi, sono io ad essere prevedibile. E’ una sensazione che non mi piace. Se ci penso non le ho mai fatto una sorpresa. Ma la sola possibilità di fargliela bastava a rendermi misterioso. Bastava a farmi attendere la sera a cena. Lei è stata comprensiva: mi ha lasciato la casa. In effetti la casa è mia in gran parte. Sono io ad essere ricco. Anche questo è servito ,al momento giusto. Oggi però apro il portafogli e lo trovo vuoto. Potrebbe essere una coincidenza, ma perché privarmi del piacere di pensare che non lo sia? Ogni sollievo è d’obbligo adesso. I miei telefonano mentre lei sbadiglia e porta il cucchiaio alla bocca. Sfoglia un’altra pagina. E’ un giornalaccio da supermercato. Davvero l’ha letto ogni mattina per tutto questo tempo. Ciao Mamma, sussurro. L’orologio sulla mensola è a forma di casetta innevata. Preso ad una fiera di Natale. Per quindici euro, se non ricordo male. Conto il tempo che impiego a ripetere a mia madre che per la morte del nonno non ci sarò. Non posso esserci. Le dico che mi dispiace, ma sanno anche loro che più di tanto non può importarmi. Sarà pure merito del nonno se un po’ di risparmi in tasca ce l’ho, ma la sostanza non cambia. Mi sto separando mamma, ora ho in testa solo questo. Perché non capisci? Lei capisce e io lo so, ma non voglio farlo credere. Passano venticinque secondi e chiudo. Sono stato veloce e sono orgoglioso di me. Alle nove e mezza ho promesso di andare a comprare le carote e l’acqua. E’ quello che manca per il nostro pranzo. Non ti dà fastidio mangiare assieme, le ho chiesto, ma lei ha scosso la testa. No. L’ammiro per questo. Non c’è odio fra di noi. Solo una concordata dissonanza. Ma conservo il privilegio di ricevere il suo affetto nei gesti quotidiani, versare il caffè, lavare i piatti, accendere la radio. Lei non obietta, è d’accordo con me. Come fosse scritto su un contratto: gli devi amore e riguardo fino a che il rapporto non è sciolto. E’ un formalismo insistente che mira solo ad escludere la rabbia funesta, l’ira esplosiva che frantuma piatti e spaventa animali e vicini. Parrebbe un’idea ragionevole, ma a me un po’ di incazzatura avrebbe fatto piacere. Mi avrebbe dato un motivo per ridere su di noi, fra dieci anni. Avrebbe reso il rapporto romanticamente più pop. Storie da tabloid. Ma lei niente. Irremovibile. Continua pure a sorridermi. Chiede l’ora a intervalli regolari ed io mi accorgo solo alle nove e venticinque che è domenica e che io non ho lezione. Che l’affitto l’ho già pagato l’altroieri e che mio nonno può vantare ancora al massimo una decina di ore da vivere. Respira ancora,dicono. Ed emette versi. C’è qualcosa di spiritoso nell’emettere versi. E’ come se volesse a tutti costi rifiutarsi di lasciare il mondo con una frase ad effetto. Perché a lui le frasi ad effetto non sono mai piaciute. Stamattina ha sollevato la testa. Ha teso la mano. Mia madre ha quasi pianto. Io ho pianto per davvero. Sotto la doccia, per non farmi sentire.  “Amore, vai al market?” domanda allungando la mano. Io gliela prendo nella mia e inizio ad accarezzarla. Annuisco. “Posso abbracciarti?” chiedo e lei si alza, mi abbraccia con vigore e si risiede. “Sei molto carina questa mattina”, “Tu sei sempre carino”. Ieri ho avuto l’impressione che l’orologio avesse smesso di funzionare. Le ho anche detto che avrei comprato le nuove pile. Quando esco di casa il cellulare mi segna le nove e trentuno. Sono in ritardo di un minuto e sento di dovermi sbrigare. Scendo in fretta le scale. Forse sono nato per correre, ma ho sempre avuto il vizio di tenere gli occhi bassi. E ora non so dove sono finito. Forse è la via dietro il market. Forse sono due isolati più in là. Forse non mi sono mai mosso di casa e vedo le stesse persone che ciclicamente si ripropongono davanti a me. Hanno alzato il tasso di interesse sui giorni prestati, e se non paghi ti bloccano nell’attimo in cui sei diventato inadempiente.

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