venerdì 22 febbraio 2013

Il ventesimo Natale


Il ventesimo Natale
Quando Bartolini Francesco arrivò a Camugnano per Natale insieme alla sua nuova ragazza, si fermò con la macchina davanti alla vecchia casa dei nonni e respirò affannoso mentre contemplava Martina.  Il giornalaio dall’altra parte della strada lo guardò con un occhio distratto. Tutti sapevano che quel Natale non sarebbe venuto da solo. Pareva impossibile. E quando Martina scese dalla macchina la fruttivendola e il fornaio, con il grembiule sporco e pochi clienti quella mattina del ventitré, s’accorsero che quella ragazza non sarebbe piaciuta. Eppure non era brutta. Nemmeno bellissima, però aveva begli occhi, era alta poco più di uno e sessanta e vestiva con grazia. Forse il naso un po’ troppo grande, ma non poteva importare troppo. La prima smorfia la fece Valerio, il cugino piccolo di Bartolini. Martina non ci fece caso ed aiutò a tirar fuori le valigie dall’auto. I nonni vennero ad aiutare. Il giorno stava calando e dentro casa era già acceso il camino. Era pronta la lasagna e la nonna aveva fatto la torta quel giorno. Bartolini teneva per mano Martina, senza accorgersi delle risate del giornalaio dietro di lui. Forse lo prendevano in giro. Nella taverna accanto zii e prozii si godevano ancora gli ultimi scampoli di tramonto vicino a una bottiglia di vino. Era un Natale non troppo freddo. Era un Natale triste. Quando s’alzarono e si diressero verso casa per cenare tutti assieme, si chiesero come sarebbe stata mai la nuova ragazza di Francesco. La prima ragazza di Francesco. Carla non ci credeva, e trascinava il suo bambino quasi sgraziatamente per la strada. Non vedeva l’ora di vedere. Suo fratello Francesco non era più da sola. Ma le sue speranze sarebbero state deluse, la avvertì la fruttivendola. Cosa c’avrà trovato mai in Martina? Carla aveva anche preparato due tazzine di ceramica per Francesco e Martina. Ci aveva scritto sopra le iniziali. Ma non era più sicura di consegnarle. Non le andava di fare Babbo Natale. Si sentiva già abbastanza vecchia per il fatto di dover tirare avanti tutti i giorni da sola, in più col bimbo che frignava. Entrarono in casa con le loro chiavi, senza bussare. La nonna s’accorse di lei solo dal pianto del bimbo. Bartolini Francesco non disse niente. Era seduto al tavolo, e guardava il lampadario. Fuori era buio pesto e adesso stavano rincasando anche zii e prozii. Erano tutti. Insieme. Valerio si divertiva a far battute acide sugli animali col nonno, e Carla si sedette sulla poltrona ,sfinita. Aveva un pacchetto in mano, ma nessuno le chiese cosa fosse. Non lo posò ai piedi dell’albero. Non si fermò a guardare il presepe che la nonna aveva fatto tutto da sola. Guardò di sfuggita Martina e pensò che avesse il naso troppo grosso. Sorrise al suo bambino e se lo mise in braccio coccolandolo teneramente. Bartolini vuotò il bicchiere d’acqua che aveva di fronte a lui, e prese ad accarezzare le ciocche castane di Martina. Hai dei bei capelli, disse, ma sottovoce per non farsi sentire. Valerio sentì lo stesso e distolse lo sguardo da quell’orribile naso, che fu notato anche dallo zio Romano che aveva già parlato anche col giornalaio, e si era convinto anche lui che quella ragazza non fosse un granché. Come vi siete conosciuti? Chiese Carla, e Bartolini Francesco lasciò parlare Martina. Ma lei si vergognava. All’università, disse arrossendo tutta. Che brutta l’università, strillò Valerio ,e poi la nonna gli disse di sedersi, che bisognava iniziare a mangiare.  Quel giorno le lasagne era venute male. Quasi bruciate. Martina mangiò tutto senza dire niente. Non le piace, disse Carla alla nonna, è vero Martina? Lei non rispose, e lo zio Romano rise. Anche a lui facevan schifo quelle lasagne. Era un Natale in famiglia. Era tanto tempo che Carla non veniva a Camugnano. Aveva avuto i suoi bei problemi,ma non aveva voglia di parlarne. Raccontami di te, disse a Martina, ma lei fece intendere con un silenzio che preferiva tener la bocca chiusa. Ma ti hanno rubato la voce? Chiese lo zio Romano, e Bartolini Francesco strinse la mano alla sua morosa, e la strinse più forte che poteva. Fuori iniziava a far freddo. Lo si capiva dal vento che muoveva le cime degli alberi e che andava a sbattere contro i tetti. E’ bello star qui, disse Bartolini, e Carla sorrise. Suo fratello le mancava. Avrebbe avuto tanto bisogno di lui al suo fianco. La bottiglia di vino era quasi vuota, e il nonno s’alzò per prenderne un’altra. C’era aria di festa. Il bimbo di Carla mangiava docile la sua pastina, mentre la mamma continuava a guardarlo, e a tratti lanciava smorfie abbozzate contro il naso di Martina. Bartolini non capiva cosa non andasse. Hai dei begli occhi, disse alla ragazza, e lei arrossì di nuovo, senza riuscire a parlare. Ora arriva la torta, disse la nonna, e a Bartolini parve di essere in un sogno. Aveva sognato un  bel po’ di volte di far assaggiare quella torta speciale ad una persona che gli stesse accanto. Tutte le volte aveva sempre mangiato la sua fetta da solo. Un anno Carla, per consolarlo un po’ un periodo che era triste e lo studio andava male, aveva preparato la stessa torta, ma il suo marito di allora l’aveva mangiata quasi tutta ed aveva anche detto che faceva schifo. Ora Carla era così presa dal lavoro che non poteva certo mettersi a far torte. Ci pensava la nonna, anche se con più fatica di un tempo. Un fulmine catturò l’attenzione di tutto, ed il crepitio del fuoco mentre fuori la pioggia prendeva a infuriare fece capire a tutti che si trattava di un bel Natale. Tutto il paese era in casa, per le strade non c’era nessuno, a parte l’auto di Bartolini Francesco, martoriata dall’acquazzone. Non si rovinerà la macchina? Chiese la nonna. Non preoccuparti, rispose Bartolini e dopo aver mangiato la torta chiese a Martina se le fosse piaciuta. Lei annuì. Bartolini, ti senti sicuro di te oggi? Disse lo zio Romano, e Bartolini disse sì. Valerio gli rise addosso, ma la nonna gli diede uno scappellotto ed allora restò zitto. Bella ragazza, ma quel naso, disse il nonno allo zio, e Martina non aveva sentito, e continuava a sorridere, ed era la prima volta che le capitava di passare il Natale con un ragazzo accanto. La casa era calda e illuminata di tenue luce rossa. Era bello, anche se strano. State bene insieme, disse Carla a Bartolini. Avete programmi per i prossimi giorni? Forse facciamo un giro per i paesini qua vicino, disse Bartolini. Ma non c’è molto da vedere. Beh, cos’altro c’è da fare? Nulla. Carla ora sorrideva più rilassata. Il suo fratellino era di fronte a lei, iniziava ad arrossire anche lui. Si sentiva così piccolo. Vado a dormire, disse il nonno, mentre la nonna già iniziava a lavare i piatti. Partita a carte? Chiese lo zio Romano, ma quell’anno, per la prima volta, Bartolini non poteva. Non aveva tempo di giocare. Io gioco, disse Carla. Ma tu non sai giocare. Gioco lo stesso. No, se non sai giocare no. Lo zio Romano s’alzò, si versò un ultimo bicchiere di vino. Salutò la nonna e disse arrivederci al giorno dopo. Carla non lo salutò. S’era offesa. Beata la donna che riusciva a sopportare quell’uomo, pensò. Fuori piove ancora? Chiese Bartolini. Sì, piove, non si può uscire. Allora come va Carla? Abbastanza bene, si va avanti. Con il lavoro? Non mi lamento, e tu come stai, l’università come va? So studiando per gli esami di febbraio, spero vada tutto bene. E tu che studi Martina? Matematica. Mamma mia, una ragazza che studia matematica, disse Carla ,e rise a più non posso. Ma che brutto quel naso! Ora noi andremmo in camera, disse Bartolini. Fa’ pure, esclamò la nonna, e poi chiese a Carla di aiutare a lavare i piatti. Devo mettere a letto il bambino nonna, vengo quando ho finito. Perfetto. Allora buonanotte. Buonanotte. Quella notte Bartolini non aveva molto sonno. Aveva freddo. Fuori c’era una tale pace. Il rumore della pioggia conciliava i pensieri. Come è possibile che io ti abbia trovato? Chiese Bartolini a Martina, e lei non rispose. Era iniziato con un caffè insieme, oppure era un sorriso a mensa? Non si ricordava più. E quanto tempo era passato? Qualche mese: due, forse tre. Per loro, quell’anno,la nonna aveva preparato il letto grande, e ci aveva messo le coperte rosse, quelle belle. Per Bartolini, quando era solo, non lo aveva fatto mai. Non lo aveva mai fatto nemmeno per Carla. Mentre lavava i piatti la nonna pensava. Speriamo vada tutto bene. Se solo non avesse quel naso sarebbe perfetta. Carla scese già in pigiama. Ti aiuto, disse, e la nonna sorrise. Ti sei ripresa dopo il divorzio? Chiese. Sì, almeno credo, rispose Carla, ma non era troppo convinta. Mentre asciugava i piatti diede uno sguardo veloce alla finestra. Fuori pioveva ancora. Le vecchie stoviglie di rame sopra al ripiano del camino brillavano di luce propria. Il loro luccichio invadeva tutta la stanza, rendendola magicamente più calda. O forse era solo il fuoco. Carla iniziò a sudare. Quanti anni hanno quelle stoviglie? Tanti, rispose la nonna, me li aveva dati mia madre come dote, da portare in casa dopo il matrimonio. Da quanti anni non le usi? Troppi. Perché non prendi a riusarle? Sono troppo vecchie, proprio come me.  Non dire così nonna, fece Carla, io mi sento più vecchia di te. Secondo te durerà per Francesco? Non lo so, per me no, è impossibile. Hai ragione, è impossibile. Bartolini Francesco era quello che non ci riusciva mai. Poco più tardi Carla, salendo le scale, notò la luce nella camera dei morosi ancora accesa. Non era troppo tardi, ma lo era abbastanza, così bussò. Bartolini disse avanti, e c’era lui da solo a guardare la finestra. Dov’è Martina? E’ in bagno. E’ bella, disse Carla. Lo so, rispose Bartolini, ma non stava sorridendo, e il suo cuore batteva forte, Carla lo poteva sentire. Che hai? Gli chiese. Niente, rispose lui. Non ci credi neanche tu che non sei più solo, vero? Bartolini annuì, poi Martina entrò nella stanza. Sorrise. Carla se ne andò augurando la buonanotte a tutti e due. Pochi minuti dopo il bimbo di Carla prese a frignare, al punto che anche il nonno si svegliò . Bartolini chiuse la porta a chiave, si girò per guardare Martina nel letto. La lampada era accesa. Un bicchiere d’acqua sul comodino. Hai sete? Chiese Bartolini, Martina annuì. Perché siamo qui? Disse, e la ragazza parve capire, ma non disse niente. Non ne aveva più la forza. Chiuse gli occhi cercando di abbandonarsi al sonno, e Bartolini la guardava da lì vicino. Le prese la mano, gliela baciò delicatamente, provò a ricordarsi del giorno che gli aveva detto “sì”, ma non ci riuscì. Forse era stanco anche lui. In paese c’era aria di stanchezza. Era morta la moglie del giornalaio, poi il marito della fruttivendola. Tutti portati via dall’età. Ogni anno ce ne era qualcuno di meno. Lo zio Romano ripeteva sempre che quel paese portava sfortuna, e Carla gli dava ragione. Per questo non ci voleva mai andare. Ma a casa sua doveva star sola, e non le andava più. Bartolini pensava a sua sorella, ed un po’ gli veniva da piangere. Martina lo vide mentre apriva gli occhi, e disse se fosse colpa sua. Che cosa? Il pianto, è ovvio. E’ colpa mia? No, no, certo che no, perché lo pensi? E’ per il mio naso forse? Vorrei tanto non averlo. Cosa c’entra il tuo naso? Martina sorrise, la sua voce usciva impercettibile. Non sapeva parlare ad alta voce. Bartolini le baciò la guancia, poi il collo, ma cercò in tutti i modi di non guardarle il naso. S’accorse di averne paura. Fuori continuavano i pianti del bimbo e la finestra pareva quasi cedere sotto il peso della pioggia. Ora dormi, sei stanca, disse Bartolini. In quell’esatto istante pensò che Martina, prima o poi, se ne sarebbe andata. Era rimasta terrorizzata da quella sera, o,semplicemente, aveva perso la voglia. Capita sempre. Era capitato a Carla col marito. Sarebbe capitato anche a lui con Martina. In quel momento però le voleva bene, e lei a lui. Dormi, dormi tranquilla piccola, stanotte ci sono io accanto a te. Bartolini spense la luce, e la stanza si fece improvvisamente più fredda. Chissà quale sarà il mio regalo di Natale quest’anno, pensò, poi chiuse gli occhi. Una mano lo sfiorò. Era sua sorella. Come sono andati gli esami? Tutto bene, disse lui, ma sono stanco. Stai male? Sì. Perché? Cos’hai che non va? Credo d’esser stanco di star sempre da solo. Ma non preoccuparti per queste scemenze! Prima o poi...lo sai che tua nonna ti vorrebbe tanto vedere con una ragazza che ti voglia bene,però trovatela carina… E’ il naso che non va, te ne accorgi? Quella non piace a nessuno, poi non parla mai e non bisogna fidarsi…attento che quando meno te lo aspetti quella se ne va e ti lascia disperato…dai retta a me, me ne intendo. Ma perché non posso decidere da solo? E’ per il tuo bene, fidati. Ma perché non posso volerle bene? Perché è impossibile che qualcuno voglia bene a te. Tu sei quello che non ci riesce mai. Resta vicino a me ,Francesco, tua sorella ti conosce e ti vuole bene, e vieni quest’anno in montagna a Natale, la nonna ti prepara le lasagne e la torta alle castagne. La mattina dopo era avanzata una fetta di torta. Stava lì accanto alla tazza col latte. Bartolini la vide, anche se la sua vista era annebbiata dalle luci del mattino, dopo una lunga notte di sonno. Mancava poco a Natale ormai. Bartolini disse buongiorno a tutti, sorrise , poi si sedette e prese a mangiare. Quanto era buona quella torta, era un momento da gustarsi solo con se stesso. Buongiorno Francesco, disse la nonna. Buongiorno. Ciao fratellino, fece Carla, e sorrideva tenendo in braccio il bambino. Ora non piange più? No, gli ho dato da mangiare. Il temporale della sera prima era svanito. Quella mattina faceva tanto freddo, ma c’era il sole. La radio trasmise una canzone natalizia e a Carla prese voglia di ballare. Vieni Francesco, balla con me. Bartolini s’alzò un po’ controvoglia. Sono troppo grande per fare ancora queste cose. Ma che sciocchezze! Vieni, balliamo. La musica prese ad andare. Valerio scese e prese in giro il cugino che ballava con la sorella, poi la nonna lo fece sedere e gli diede da mangiare. Sei proprio un bel ragazzo, Francesco, disse Carla muovendo il bacino a tempo di musica e facendo brillare i suoi grandi occhi azzurri. Sapete l’ultima? Sbraitò lo zio Romano entrando di soprassalto dalla porta semichiusa e sorprendendo tutti. Bartolini fece una faccia dubbiosa, oppure solo assonnata. Il figlio della fruttivendola s’è trovato una morosa, si chiama Martina. Ah, sì, e com’è, chiese Carla continuando a ballare e a sorridere. Oh, io l’ho vista solo una volta, disse lo zio, a me par carina, ma ha un naso che fa spavento. Capito Francesco? Fece la nonna. Tu trovatene una più bella.

venerdì 15 febbraio 2013

Il signor Domenica-ultima parte


Arrivò il sabato, il giorno che Berto tanto aveva atteso. Il pomeriggio telefonò a Stanley, parlarono del più e del meno. ad un tratto Berto disse che sarebbe andato di nuovo a vedere il Signor Domenica. <<Non ti ho chiamato perchè pensavo che non saresti voluto venire>> si scusò Berto con l'amico ed aggiunse <<Poi credo che quello voglia vedersi a quattr'occhi, sento che mi deve dire qualcosa. Ma dobbiamo sbrigarcela noi due>>, <<Parli come se vi doveste sparare>> disse ridendo Stanley <<Non preoccuparti, non mi andava di venire ad ascoltare ancora jazz, mi ha un po' stancato, ma sono contento che tu ti sia appassionato>>. Berto mise giù la cornetta, preparò i vestiti da mettersi, voleva essere raggiante. Indossò il miglior smoking che avesse, con tanto di fiore all'occhiello, si pettinò con cura i capelli e se li impomatò. Rimase diversi minuti a guardarsi allo specchio, scoprendò in sè una vanità sconosciuta. Se ne vergognò un poco, poi infilò il cappotto ,diede un'occhiata all'orologio e uscì di casa. In macchina ci mise pochi minuti a trovare il La Paz. Fu fortunato piuttosto a scovare un parcheggio libero in centro il sabato sera. Davanti al locale c'era una piccola folla di gente. Tutti erano accorsi per il Signor Domenica. Berto fece una smorfia sarcastica e si apprestò ad entrare. Una luce rossa illuminava stancamente la sala destinata al concerto. I numerosi tavoli erano tutti affollati. Berto prese posto, ordinò qualcosa da bere, poi venne disturbato da un soffio d'aria che gli penetrò nell'orecchio. Si voltò, vide Luna con gli occhi spalancati e sorridenti. <<Ho soffiato io>> disse e poi abbracciò Berto e si baciarono nella semioscurità. <<Tuo padre dov'è?>> chiese lui, <<Si sta preparando>> rispose Luna, <<Vuole che vada a parlargli adesso, prima del concerto?>>, <<No, meglio di no. E' meglio dopo>>, <<Va bene>> fece Berto e si sedette con vicino Luna e non riusciva a dirle niente per quanto era bella. Dopo poco entrò il vecchio. Si muoveva ,come al solito ,stancamente, e nascondeva lo sguardo sotto il solito cappello. Solo allora Berto pensò che non aveva mai visto bene gli occhi del Signor Domenica. Accolto da uno scrosciante applauso, il vecchio si sedette ed iniziò a suonare, muovendo piano le dita sulla tromba. Berto rimase sconcertato. La canzone che sentiva non era la solita con cui aveva aperto i due concerti precedenti, anzi, era proprio una canzone nuova. A Berto parve strano, e oltretutto la melodia prodotta dalla tromba era più malinconica del normale. Berto tremò, ma non fu un'emozione felice, fu paura. Le svisate della tromba parevano spari, spari che risuonarono nella testa di Berto, spari che il padre gli aveva raccontato di aver visto durante la guerra, gli spari con cui lui e tanti suoi commilitoni sparavano ai nemici e ai partigiani. Le note del Signor Domenica disegnarono nella testa di Berto i sentieri di montagna su cui si era combattuta quella maledetta guerra, e suo padre che aveva di fronte un partigiano e doveva decidere se premere o no il grilletto. Dopo pochi minuti non riuscì più a sopportare quella musica, abbassò la testa e mise le mani sulle orecchie. Luna si spaventò, <<E' successo qualcosa?>> chiese, ma Berto non rispose, <<Che hai?>> continuò lei, <<Niente>> fece lui con voce tremante, ma in cuor suo pregava il vecchio di smetterla con quella musica. Ma Mister Sunday non si fermava ,anzi, il dolore di Berto sembrava dargli forza. La canzone diventava ogni secondo più dura, più triste, sanguinava rabbia da ogni poro. Questo era il vero jazz, il jazz dei reietti e degli abbandonati, il jazz dei negri di campagna, la musica del diavolo, e il Signor Domenica pareva conoscerne tutti i segreti. Alla fine del primo pezzo il vecchio tossì, si alzò dalla sedia, parve barcollare, ma rimase in piedi e riprese a maneggiare la tromba. Il concerto durò a lungo e Berto rimase per tutto il tempo con gli occhi chiusi, soffrendo in silenzio e mentendo a Luna sulle sue condizioni. I brutti ricordi si mescolavano ad immagini infernali evocate da quelle note. Era una tortura. Minuto dopo minuto, a l'una di notte passata, il dolore iniziò a scemare. Si approssimava la fine. Quando fu concluso l'ultimo pezzo,il Signor Domenica fece un ghigno beffardo, rivolto al pubblico, e il pubblico rispose con un applauso, il più forte che Berto avesse mai sentito in vita sua. Il vero jazz, dall'anima sanguinante,lo aveva stordito, e se ne stava lì, vicino alla donna che amava, sentendosi prigioniero di una musica surreale. Quando il vecchio scese dal palco e si ritirò nel retroscena, Berto ricominciò a riacquistare i sensi. Luna lo accarezzava dolcemente. <<Devo parlare con tuo padre>> disse ansimando, <<Aspetta. C'è tempo. Se non ti senti bene...>>, <<No, devo parlargli>> tagliò corto e si alzò contando su tutte le sue forze. Quando riaprì gli occhi vide che il locale era già deserto. C'erano solo lui e Luna. Alla fine Berto, sentendosi di nuovo mancare, pensò fosse meglio prendere una boccata d'aria. Si fece accompagnare da Luna fuori dal locale. La notte gli piaceva: era fresca e arieggiata. Respirò a pieni polmoni, si sentì davvero meglio ,ma la paura non se ne era andata dal suo cuore. Fu solo un istante in cui riuscì a calmarsi, poi notò lo sguardo di Luna rivolgersi all'indietro, come se fosse arrivato qualcuno. <<State davvero bene insieme>> disse il vecchio con la sua voce roca e incatramata. Berto si sforzò di sorridere e lasciò che il fresco vento gli passasse tra i capelli. Ma ormai non era più solo con se stesso. Il Signor Domenica gli si fece vicino, senza nemmeno degnare di uno sguardo la figlia. <<Allora. Ti è piaciuto lo spettacolo?>> chiese. Berto annuì, ma il vecchio scosse la testa, <<Non mentire. Non ti è piaciuto. Ti ho visto, sai, stavi male, tenevi la testa bassa, ti davano fastidio le mie canzoni. Si vede che non ti piacevano>>, <<No, no>> rispose Berto <<Erano solamente diverse dalle solite. Sono nuove?>>. Il vecchio sorrise, fece un passo avanti, allargò le braccia. Intorno a lui la strada deserta, i palazzoni bui e dalle pareti sporche e cadenti, i lampioni illuminavano il marciapiede dove le ombre proiettate di Berto e del vecchio sembravano davvero toccarsi, abbracciarsi, legarsi in un valzer mortale. <<No>> fece il vecchio, <<Non sono nuove. Anzi, a dire la verità sono molto vecchie. Le ho scritte tanto tempo, addirittura più di sessant'anni fa. Sai quanti anni ho?>>, Berto scosse la testa. Luna si avvicinò a lui ,gli mise le mani sulla spalla sinistra, per consolarlo. Nemmeno lei sapeva cosa stesse succedendo. <<Guardali!>> fece ad un tratto il vecchio, indicando un gruppo di gatti randagi che frugavano fra la spazzatura abbandonata vicino ad un cassone. <<Cosa devo guardare?>> fece Berto, <<Loro!>> sbraitò il vecchio <<Senti come miagolano! Sono davvero dei teppisti, eppure i loro miagolii sembrano tanto, troppo onesti per una sera come questa, una sera, anzi, una notte, in cui abbiamo insieme un musicista maledetto e un assassino!>>. A Berto mancò il respiro, <<Che assassino? chi è ?>> chiese. Il Signor Domenica si avvicinò a Berto mentre dai tombini sulla strada iniziava ad uscire un denso fumo, fetido e nero. <<Sei tu l'assassino!>> disse il vecchio <<Non sei forse un soldato?>>, Berto fissò l'uomo negli occhi, scansò instinvamente Luna che si allontanò senza dire una parola. <<Io no. Mio padre era un soldato>>, il vecchio grugnì <<Allora tu hai ereditato la sua colpa>>, <<Che colpa?>> chiese esasperato Berto. Il Signor Domenica, con calma, fece cenno a Luna di avvicinarsi. Lei obbedì, tenendo lo sguardo basso. Berto si chiese se lei sapesse, ma lei non sapeva. <<Ti ho detto che sono nato in Italia?>> domandò il vecchio, Berto disse di sì. <<Sai che abitavo in un borgo di montagna? Io la tromba ho iniziato a suonarla molto tardi. All'inizio facevo solo il falegname e nemmeno troppo bene. Però con le persone ci sapevo fare>>. Il fumo continuava ad invadere la strada mentre il vecchio continuava a parlare. <<Ero davvero simpatico. Parlavo molto di più di quanto non faccia adesso, e avevo una famiglia. Avevo lei>> esclamò stringendo a sè Luna. Berto notò che le guance dell'uomo iniziavano a rigarsi di lacrime, una folata di vento gli fece volare via il cappello, rivelando il capo bianco e scompigliato. Ebbe pietà del Signor Domenica, l'ebbe per davvero e si sentì colpevole, anche se non lo era. <<Lei era mia figlia. Mi sorrideva ogni mattina, lavorava nell'orto vicino casa mia, scendeva in paese a fare compere, e combatteva insieme a noi partigiani, durante la guerra. Era brava a salire i sentieri , anche ad arrampicarsi, davvero brava. Poi un giorno ci hanno preso, ci hanno assalito, ed io mi sono inchinato di fronte al fucile dei tedeschi, di fronte al fucile degli italiani. Li ho pregati di risparmiarci la vita. Non ci hanno dato ascolto. Abbiamo combattuto, sai, abbiamo combattuto tanto. Abbiamo perso. Io sono scappato giù per la montagna ,ferito, sono scappato tenendo gli occhi chiusi. Ma Luna no. Luna è rimasta ed è stata uccisa, ho visto il momento in cui tuo padre la uccideva>>. Berto non disse una parola, ormai il vecchio era avvolto dalla nebbia nera, nell'aria risuonavano note e uno strano rumore, come di un treno in avvicinamento. Luna era lontana, insieme al padre. Berto si chiese se fosse mai esistita. Il vecchio non aveva però perso la forza di parlare e, nonostante il pianto, continuò rabbioso. <<Dopo la guerra sono andato in America. Non riuscivo più a vivere nel paese dove mia figlia era morta. Sono diventato un jazzista, ho scoperto che suonare la tromba alleviava il dolore, ma una sola cosa, credo, mi ha spinto ad andare avanti. Avevo voglia di vendicarmi e se hai del male nel cuore ,ebbene, il jazz te lo fa crescere ancora di più. Vedi l'inferno quando suoni jazz e la cosa più triste è che ti piace l'inferno che vedi. Non sai quanto tempo ho pregato il diavolo perchè riportasse mia figlia nel mondo ,così che io potessi attuare la mia vendetta. Ora ci sono riuscito. Tu hai visto mia figlia, hai parlato con lei, l'hai amata e continui ad amarla. Questo è quello che io ho perso. Ho perso Luna. Tuo padre è morto, ma io no ed adesso morirai tu nel modo in cui sarebbe dovuto morire lui>>. Il vecchio tirò fuori dalla tasca del lungo cappotto quella che sembrava essere una pistola. Berto la intravide fra il fumo, aveva voglia di scappare, ma sembrava paralizzato. Le sue gambe non riuscivano a muoversi, come se il fumo lo tenesse stretto per offrirlo al macello. <<Io non ho fatto niente!>> urlò <<Perchè devo morire io? Luna, perchè devo morire io? Luna, perchè non possiamo vivere insieme?>>. Luna lo guardava con un sorriso triste. Adesso quella ragazza sembrava davvero un fantasma. sapeva che suo padre avesse ucciso della gente, ma non avrebbe mai immaginato di subirne lui le colpe. Pensò per un solo istante se avesse potuto, in quel momento, vivere per sempre con Luna, amarla come si deve ad una vera donna. Avrebbe così espiato la colpa del padre, avrebbe pulito la sua memoria, avrebbe reso giustizia al Signor Domenica. Lo pensò sinceramente ed in quel momento Luna parlò. <<Sono morta, ma voglio bene a quest'uomo. Papà! Io gli voglio bene!>>. Il vecchio scrutò la disperazione di Berto, il fumo all'improvviso si infittì, il rumore del treno si fece sempre più insistente. Berto non lo potè vedere, ma il vecchio abbassò la pistola. <<Ti ho messo alla prova ragazzo, e anche se vorrei tanto ucciderti, tu non sei colpevole quanto lo fu tuo padre. Pace sia all'anima sua, ed anche alla mia. I patti vanno rispettati. Avevo promesso all'inferno un'anima. Ora mi toccherà dargli la mia, ma tanto sono vecchio e non ho molto da perdere>>. ,<<No!>< fece Berto con la vista annebbiata, non poteva vedere nient'altro che non fosse fumo e oscurità, le note ripresero a suonare. <<Mi dispiace>> continuò Mister Sunday, <<Ma devo prendere un treno per l'aldilà>>. Berto era chiuso nel buio, ma all'improvviso si accorse di poter muovere un braccio, poi una gamba, poi l'altra. Corse. Corse senza pensare. Corse solo per scappare, dietro e davanti a sè aveva buio e fumo, ma corse lo stesso. Corse ad occhi chiusi. Quando ,dopo molti minuti, li aprì, era solo in una piazza vuota, una piazza che conosceva. Era quella dove aveva parcheggiato la macchina. Infatti la sua macchina era ancora lì, l'unica in mezzo a tanti posti vuoti. Aprì la portiera, mise le chiavi nel quadro e partì. Arrivato a casa si gettò nel letto e si addormentò.
La mattina dopo fu svegliato da una telefonata. Era Stanley. <<Buongiorno. Come è andata ieri sera? Ti sei divertito?>>, <<Ah, sì, abbastanza, ma, senti, ti richiamo dopo. Ora sono troppo stanco. Ieri ho fatto tardi>> fece Berto e riattaccò. Avrebbe voluto rimanere a letto, invece si alzò , fece colazione, notò che era una bellissima giornata,anche se decisamente fredda. Indossò il suo cappotto più pesante ed uscì. LA strada era animata da un'insolita vitalità. Famiglie a passeggio con i bambini, ragazzi a gruppi che parlavano a voce alta. Berto fece una lunga passeggiata, respirando l'aria pura del mattino. Si chiedeva che fine avesse fatto il Signor Domenica. Si ricordava di esserlo andato a vedere la sera prima, di averlo sentito suonare canzoni molti tristi, ma poi gli pareva di essersene andato senza nemmeno salutarlo. Gran bravo jazzista il Signor Domenica. Berto gli augurò successo dovunque fosse andato a portare le sue note sognanti. D'un tratto vide un gruppo di ragazze ferme ad aspettare l'autobus. Ce ne era una che gli piaceva molto: aveva i capelli neri, gli occhi rivolti verso di lui. Indossava un vestito a fiori rossi e neri. Berto decise di rispolverare l'antico metodo per rimorchiare una ragazza. Si avvicinò con noncuranza a lei, proprio mentre arrivava il bus. <<Ci conosciamo per caso?>> le chiese così a bruciapelo, lei lo squadrò da capo a piedi, <<Credo proprio di no>> disse un po' stizzita. Berto allora sorrise nel modo più sincero che poteva, sgranò gli occhi davanti a lei. <<Potremmo iniziare a conoscerci adesso>> fece e la ragazza si sciolse. Sorrise anche lei, arrossì un poco, ma proprio in quel momento si fermò il bus e lei dovette prenderlo al volo. <<Scusa devo andare>> disse a Berto, ma lui la trattenne per un attimo <<Dove posso trovarti?>> domandò, lei salì sul bus, sorrise e fece <<Dove ti pare. Se vuoi cercarmi, mi troverai>>. Salutò e il bus partì. Berto mise le mani in tasca e riprese a camminare, fischiettando un motivo jazz.

martedì 12 febbraio 2013

Il signor Domenica


Luna tornò accompagnata dal suo solito sorriso. Berto la incontrò all'ora di pranzo, quando staccava dal lavoro per un po'. Mangiarono insieme ,parlarono poco. Preferivano scrutare l'uno gli occhi dell'altra. Luna volle regalare a Berto un fiore da portare con sè in ufficio. Il mercoledì fecero l'amore. Non che fosse una cosa tardiva ma Berto avrebbe voluto farlo molto prima, già il lunedì era pronto ma Luna non volle rimanere la sera a casa sua. Quel giorno invece restò, dopo cena, con la scusa di guardare un po' di televisione insieme. Berto si accorse per la prima volta che Luna non aveva il benchè minimo accento straniero, a differenza del padre. <<Sei sempre vissuta in Italia?>> le chiese coccolandola, <<Sì>> rispose lei, <<E con tuo padre come facevi? Vivevi insieme a tua madre?>>, <<No>> fece lei scuotendo la testa <<Mia madre è morta quando ero piccola. Io mi sono arrangiata da sola>>, <<Ma eri una bambina, come hai fatto a vivere da sola?>> chiese Berto sconcertato, <<Ce l'ho fatta. E' questo che adesso importa. Ora non pensare a queste cose>> ribattè lei baciandolo dolcemente e lui si lasciò andare nelle sue braccia. Il dubbio rimase perchè non si poteva togliere, ma Berto ormai ci aveva fatto il callo alle stranezze di tutto ciò che ruotava attorno al Signor Domenica. In un certo senso però Berto avrebbe voluto per Luna una vita diversa, avrebbe voluto farla diventare indipendente, avrebbe voluto portarla lontano dal padre che era venuto lì per stare con lei. Berto temeva il vecchio e non poteva farci niente.
La mattina dopo Berto e Luna si svegliarono insieme nello stesso letto e rimasero abbracciati finché lui non dovette andare al lavoro. Luna se ne andò correndo per la strada soleggiata del primo mattino, incontro all'autobus che doveva prendere al volo. Berto la vide scorrere davanti a sè e gli sembrò quasi il fotogramma di un vecchio film in bianco, con in sottofondo una dolce tromba ad accompagnare la partenza dell'amata. Sentì un soffio al cuore, per un attimo gli mancò il respiro, poi si riprese, ma quel giorno lo passò inquieto. Si chiedeva se il filo che lo legava a quella donna fosse in suo potere di rinforzarlo, di filarlo ancora, oppure se dipendesse da qualcun altro, dal maledetto jazzista, che poteva decidere di tagliarlo a suo piacimento. Quel vecchio non gli aveva fatto nulla di male, anzi, gli aveva consegnato nelle braccia la figlia, eppure permaneva nella sua mente un dubbio che difficilmente se ne sarebbe andato. Tornando a casa la sera non dimenticava mai di salutare la foto di suo padre che, non ci aveva mai pensato prima, se fosse stato ancora vivo avrebbe avuto più o meno la stessa età del Signor Domenica. 

lunedì 4 febbraio 2013

Il signor Domenica V


La mattina dopo si svegliò molto tardi. Rimase sotto il letto a pensare a quello che gli era successo. Si alzò pigramente che erano le dieci passate. La Domenica era più leggera, dopo un Sabato sera passato ad ascoltare il Signor Domenica. E poi c'era lei, che pareva quasi un angelo, eterea, materia di studio per filosofi e sognatori. Dopo una veloce colazione Berto sentì la solita, irrefrenabile, voglia di uscire. Gli sembrava tutto molto strano. Il jazz doveva essere la musica della disperazione ,invece da quando aveva ascoltato quel vecchio trombettista i suoi sogni si erano popolati di presenze gioiose. Scese lentamente le scale , vide un'ombra muoversi fuori dal portone, si rinnovò in lui l'inquitudine della settimana precedente. Aveva paura di incontrare il vecchio di nuovo, ma non fu così. Scandendo piano i passi nello scendere, si accorse che fuori dal palazzo stava una donna, alta, snella, dallo sguardo perso nel vuoto. Si chiamava Luna, ed era lei. Era figlia del maledetto trombettista, era anche lei parte del puzzle surreale in cui la vita di Berto si stava spezzettando. Come le fosse venuta voglia di presentarsi da lui, nessuno avrebbe potuto mai saperlo. Berto si fermò un attimo, si sentì tremare da capo, si chiese per l'ennesima in che tunnel si stesse cacciando innamorandosi di quella sconosciuta ed andando dietro a suo padre. Alla fine ogni congettura e questione irrisolta cedette il passo al fascino di una ragazza in fiore, del suo sorriso semplice ed eterno, fuori da ogni tempo. Berto aprì il portone, sorrise a Luna, lei ricambiò, <<Ciao>> disse semplicemente e lui rimase muto. Dopo qualche secondo di silenzio lei scoppiò a ridere, <<Che c'è? Ti sei imbambolato?>> domandò, Berto si ridestò, si vergognò pazzamente del suo strano comportamento, si scusò costernato, <<Mi dispiace, ma non mi aspettavo di trovarti qui. Cosa fai?>>, <<Ero passata a trovarti>>, <<Perchè?>>, <<Non lo so. Così. A volte mi sembra che noi due ci siamo conosciuti>>, Berto trasse un sospiro <<Sai che a volte capita anche a me. Mi sembra di averti già vista>>. <<Capita>> esclamò lei sorridendo ancora, ma questa volta i suoi occhi tradivano un velo di paura, che Berto notò e cercò subito di eliminare, mettendo la sua mano sul fianco della ragazza, sul suo solito vestito a fiori rossi e neri. <<Vuoi un caffè?>> chiese poi, lei parve sorpresa, ma annuì. Disse di non avere ancora fatto colazione. Iniziarono insieme a camminare, ognuno guardando per terra. Nessuno dei due sapeva bene cosa stesse succedendo. Berto si sentiva davvero male. Non poteva sopportare che quella ragazza fosse piombata nella sua vita senza perchè, senza nemmeno dargli il tempo di confidarsi con lei, di rivelarle i suoi sentimenti. Gli piaceva, questo era fuori di dubbio, ma lo strano ricordo di lei, sepolto nella sua mente, lo inquietava non poco. Era un curioso deja-vu, che doveva al più presto essere spiegato razionalmente. Ma sembrava impossibile farlo. La mattina era fresca, il cielo terso a parte qualche nuvola isolata bianca come un fiocco di neve. Berto e Luna si sedettero al tavolino di un bar di una via di periferia, poco affollata. Ordinarono tutti e due un caffè. Non parlavano. Si osservavano, ognuno attendendo la mossa dell'altro. Ad un tratto Luna fece una smorfia col viso, Berto non capì se fosse per una sorta di felice vergogna oppure semplicemente per noia. Le tese la mano, lei la prese senza battere ciglio Diedero entrambi un sorso al loro caffè. <<Dove sei nata, Luna?>> chiese d'un tratto Berto, perdendosi nei grandi occhi neri della ragazza. <<Sono nata qui>>, <<In Italia?>>, Luna annuì, <<Perchè ti hanno voluto far nascere qui?>>, <<Mio padre mi ha sempre detto che la mia terra è e sarà sempre questa>>, <<Sono belle parole>>, <<Lo so>>. Berto iniziò ad avere caldo, si sbottonò il primo bottone della camicia, mostrando una parte del petto. <<Vivi qui da molto? E' possibile che noi due ci siamo incontrati da bambini?>>, Luna si prese un po' di tempo per rispondere, <<Non so. Io mi ricordo di te ,di qualcosa che è successo tanto tempo fa, eppure non ti ricordo come un bambino>>, <<Come mi ricordo?>> chiese Berto, <<Proprio così come sei adesso. E' strano, no?>>, <<Già>> disse sorridendo Berto, strinse ancora più forte la mano di Luna. Dopo aver finito il caffè si alzarono. Iniziò a piovere lentamente, come se l'acqua volesse cullare dolcemente la loro passeggiata. Non si preoccuparono delle gocce che cadevano, continuarono ad andare tranquilli. Berto portò Luna nei luoghi della sua infanzia, cercando di smuovere in lei qualche ricordo. Tornò alla sua vecchia scuola, ormai abbandonata e preda degli sterpi. Indicò a Luna le grandi finestre rotonde sulla parete frontale, po si spinsero fin sotto i cancelli dipinti di verde e ormai divorati dalla ruggine. Lì Berto si divertiva a giocare e suo padre lo veniva a prendere ,qualche volta, in divisa da militare. Ci teneva tantissimo. Dopo la scuola Berto portò Luna in tutti i posti che avevano segnato la sua vita in città: bar, locali, strade, parchi. Lei però non ricordava niente, se non quella faccia che la metteva in soggezione, la riempiva di affetto e le incuteva paura. Parlarono a lungo e parlarono a voce bassa. Si sussurravano l'uno all'altra le parole. Ad ogni passo i loro sguardi si incrociavano miracolosamente e, nella mente di Berto, riprese a suonare la musica, quella del Signor Domenica. Alla fine, poco prima del tramonto, le parole furono così sussurrate e così flebili che le loro bocche, per ascoltarsi a vicenda, dovettero toccarsi. Davanti al palazzo di Berto si baciarono e si baciarono a lungo, quasi volessero aspettare la notte per smettere. Alla fine, lungo quella strada deserta di periferia, la Domenica sera, Luna decise che era il momento di andar via e si congedò da Berto con un abbraccio, prima però lo invitò ad un evento a cui non si poteva mancare. <<Sabato prossimo suona mio padre. Ha detto di invitarti. Ti deve dire alcune cose importanti. Ci sarai?>>, <<Certo>> fece Berto <<Ma dove?>>, <<Mio padre dice che già lo sai. Ciao, ci sentiamo domani, d'accordo?>>. Berto annuì ,poi guardò sul suo cellulare il nuovo contatto della rubrica: il numero di Luna. Il giorno dopo si sarebbero rivisti e si sarebbero baciati di nuovo e magari avrebbero fatto l'amore. Per quel che riguardava il vecchio, Berto aveva capito subito le sibilline parole di Luna. Sabato sarebbe dovuto andare a La Paz, o meglio, in qualche posto denominato La Paz, probabilmente un altro locale. Per togliersi quel fastidioso scrupolo salì velocemente in casa, controllò di corsa l'elenco del telefono alla voce locali notturni. Trovò quel che cercava. Il La Paz era un buco seminterrato in una delle vie centrali della città. Era un posto alternativo, uno di quelli dove Berto non era mai andato volentieri e dove, pensava, non sarebbe andato più. Quella volta lo faceva per Mister Sunday, lo faceva solo per lui, perchè se lo meritava, perchè aveva una figlia meravigliosa e perchè era un musicista fantastico. Poi Berto aveva ancora molte cose da sapere sul conto di quel misterioso individuo. Decise che al La Paz ci sarebbe andato senza Stanley. Col Signor Domenica voleva parlare da solo.