Solo dopo mezzanotte

Ok, tecnicamente sono le 11 e 10 del mattino, quindi la mezzanotte è già passata da un pezzo. Non sono in contraddizione col titolo della pagina e questo mi aiuta a sentirmi in pace. Questa pagina è un po' strana: è largamente consigliato leggerla di sera, oppure se si ha voglia di qualcosa di inutile(capita più spesso di quanto pensiate). E' anche una pagina un po' più seria(e per questo inutile) dove, di volta in volta, raccoglierò delle piccole cose che ho scritto da diversi anni a questa parte. Nessuna pretesa, sia chiaro, ma voglia di trovare un posto a quelle parole che mi stanno intasando il computer. Spero possano far piacere a qualcuno e se qualche rima è troppo azzardata, aiutatemi a correggerle.



Epica scolastica

Nelle scuole a volte si trovano cose interessanti: io ho trovato un banco coperto di figurine Panini stagione 97/98(c'era Ronaldo all'Inter, che bello!). Ancora meglio: ho trovato le carte di un vecchio poema abbandonato. Spinto da un insolito fervore, ho deciso di completarlo ed è così che ho passato gran parte delle ore di lezione nell'ultimo anno di liceo. Voglio rendere gloria al suo anonimo autore pubblicandone i versi. Di tanto in tanto, per quanto mi sarà possibile, cercherò di pubblicare tutti i canti di questa immane fatica che un giorno uno studente di scuola senza volto nè nome ha voluto regalare al mondo. Buona lettura.



CANTO I


Nel mezzo del cammin di nostra vita
Allontanato dalla retta via
Mi ritrovai nel culo una matita.
Ammazza che dolore! E così sia
Se in ciel avean voluto un tale doglio
Vuol dire che lo studio è una follia.
Fu molto duro toglier quello scoglio
Dal mio sedere ch’era impenetrato
E col pensiero ogn’ora ne ridoglio
E questo gran dolore che ho cantato
È quello che mi spinse a fare versi
Acciò che più nessuno sia inculato
Matita oppure studio son diversi
Ma non sì tanto come fan pensare
Color che nello studio si son persi.
 Questo poema del mio camminare
È la più breve storia che io possa
Riassumere nell’atto del poetare
Dirò di quei ch’io vidi nella fossa
Del buio inferno, dei grandi poeti,
Le lor parole, loro prima mossa
E la cultura fece loro peti
Ma pria che ai miei lettori porti tedio
È or di raccontar fatti concreti.
Quando al culeo dolor posi rimedio
Rimasi rimirando la grafite
Al punto che sembravo fatto inedio
E giù! Piombai nella città di Dite
Per una buca che sotto ai miei piedi
S’aprì, e anche le stelle fur ghiottite.
Come quando sei un fachiro siedi
Di sopra al letto fatto di chiodame
E lampi di dolore agli occhi vedi
Così caduto in mezzo a mille lame
Mi sentii io e feci il gridar forte
A più motivo che avea pur fame
E solo allor capii d’esser fra morte
Quando m’alzai e diedi un guardo attorno
E mille spade nere erano sorte.
Se sopra mi trovavo in mezzo al giorno
Di sotto niuna luce fatta era
Sicché non vidi la via del ritorno
Allora una di cavalieri schiera
Veloce s’appressò e il prim che colse
La mia presenza, rise a faccia nera
E più che meglio a me lo sguardo volse
Poi chiese “Se’ tu mai chi ‘l lapis fosco
Si ritrovò nel culo e se lo tolse?”
 Io dissi sì, parlando in fare tosco
Poi ch’egli mi sembraa di quella zona
Sebbene geografia ben non cognosco.
Ed elli ,come tromba che risona
In mezzo a degli eserciti in attesa
Gridò “Mirate questa anima bona!”
“Pel suo coraggio” e sua man mi fu tesa
“Ei venne qui , sì preparate un pranzo
Allor, perciò, andate a far la spesa!
E tu mortale che mi sembri un ganzo
Non ti crucciare che sarai liberto
Poscia ch’avrai mangiato il nostro pranzo
Se mentre noi facciam questo concerto
Tu vuoi fare un giretto in queste lande
Io guida tua sarò e non diserto
 Da te mi farò mai chè le mie bande
Son brave anche a badare a loro stesse
Nessuno sbatterà lor mai mutande
Meraviglie in hoc loco sono appresse
E noi di qua verremo per vederle
A poco a poco le farem progresse
Ma prima che tu possa sì piacerle
Mi devo presentare: sono Dante
Che di poesie ne fece tante perle
Io dei tuoi versi, io ne ho scritti tante
Talmente tante che più non discerno
Quali abbia scritti prima e quali avante.”
Andando per le lande dell’inferno
Calcando del diabolico gli imperi
Tra quei gironi in cui v’è sempre inverno
 Un uomo mi guardò con occhi fieri
Le membra si gelarono di scatto
Quando capii ch’ei fu Dante Alighieri
E dissi “O che han dato di matto
Se tu se’ Dante allora in Paradiso
Dovresti star per quello che tu ha’ fatto
Ed elli a me “Così per me han deciso
In quanto scrissi troppo e fui superbo
Superbia mi dipinsero sul viso
E caddi in Purgatorio e lì il mio verbo
Ancora fu schernito dagli spirti
Che losco fato avean per me nel serbo
E il diavolo mi prese e fra quest’irti
Colli io gli faccio da custode
Di questo posto in cui non crescon mirti
 Né altri fior. Ma questo mi fa lode
Poiché nessuno sa di questo posto
A mo’ di me, io che ne feci l’ode
Non perdere altro tempo, andiamo tosto
Chè di tot cose devi far scoperta
E se in ritardo a pranzo non c’è posto.
Risponderò a ogni tua domanda aperta
Man mano che il cammino scioglieremo
E l’or del tuo ritorno sarà certa”
Così esclamò e mano come un remo
Tese alla sua destra e disse “Presto”
Ed io “Se dobbiamo andare andremo!”
Così iniziò il mio viaggio un po’ molesto
Ma anche audace, fiero e baldanzoso
Che tanto bello fu quanto fu lesto
 Di tutto ciò che canterò a ritroso
Non posso certo dire ogni dettaglio
Perché alla fine sarebbe noioso.
Se di una nave tu sai l’ammiraglio
E sei dimentico di tutti i mozzi
Così farò e gente che d’abbaglio
 Fu nella storia e del sapere i pozzi
Riempì costantemente in grande foga
E fece scritti alti inver che tozzi
Io la racconterò e con la toga
Di Cesare nel mezzo all’assemblea
Celebrerò il mio spirto che si sfoga.



CANTO II

Grandi e pressanti problemi d'interpretazione pone questo canto, da me ritrovato in condizioni lacunose e drammaticamente parziali ,attaccato al vecchio banco di scuola tramite una cicca. Ignoto e passibile di più ricostruzioni la figura di Alcuino. Sarà probabilmente un personaggio che il nostro ignoto autore avrà dovuto studiare, suo malgrado, a scuola, ed un suo compagno di classe, proprio durante un'interrogazione su Alcuino, avrà probabilmente preso un votaccio. Da qui l'astio che il poeta conserva nei confronti del personaggio.



Ero nel loco ov’anime son tante
E oltre che tante sono anche dannate
In breve, ero all’inferno, insieme a Dante.

Ora, non è ch’io voglia dir boiate
Ma parvemi di udire un bel boato
Da dove erano l’anime malnate.

“Fra te e fra me non far che ci sia iato”
Lo mio maestro disse a mo’ di avviso
“Se vai da solo sarai coglionato”.

E dunque andammo ed io era fosco in viso
Non potete saper con quanta strizza
Percorsi quella landa sanza riso

Così come quando il pene si drizza 
E tu senti tremar tutte le membra
E verso una ragazza tu t’appizza

Così tremai e morte tutto sembra
Vi posso assicurare, quando sei
Nel posto che d’ognun le membra smembra.

Lo so ,sono noioso, ma vorrei
Farvi capire la mia condizione
Al fio di romper voi gli zebedei

E non avendo fatto colazione
I’devo dir ch’avea un buco alla pancia
Che dura m’era di sopportazione

E d’un coltello che l’arrosto trancia
Di lui sognai e d’un gran bistecca
Per quella io data avrei una grossa mancia.

E il vate, appiccicato come zecca
Mi disse “Non pensare alle cibarie
Che fino a pranzo è lunga ancora la stecca.

Qui inizia il regno delle dee malarie,
e ti ricordi di quel suono strano
che tu sentisti prima in mezzo a l’arie?

Son loro.” Disse e tosto con la mano
Mi fece segno d’un gran colonna
Di spirti co’ ‘na tromba in mezzo a l’ano.

“Ogn’uomo che tu vedi ed ogni donna
In mezzo a quella schiera, è stato ignavo
E per farti capir, tu prendi Ogbonna

E’ stato un giocator, non tanto bravo
Che adesso non ricorda più nessuno
E vive dell’indifferenza schiavo.

Ed ora sai dove finirà uno
Che nella vita non farà mai niente
Di più importante che tagliare un pruno.

Fra loro puoi conoscer tanta gente
Inutile, come è inutile un mazzo
Quando a dadi giochi e sei vincente.

Per questi peccatori da strapazzo
Non devi spender più di qualche sguardo
Diciamo: è gente che non contò un cazzo.

Adesso andiam con passo di leopardo
Felpato quanto basta a far silenzio
Non come telecronache di Pardo”

Non conosceva alcuno, io sentenzio,
e m’annoiai a tal punto fra gli ignoti
che tanto avrei voluto bere assenzio.

Po’ chiesi “Mio maestro, non tu noti
Che questi hanno il sedere che strombazza
Di barbare scorregge? Sembran goti”

E lui “Peccator di questa razza
Patiscono questa curiosa pena:
Appena poscia il dì che loro ammazza

Finiscon qui, e qui di buona lena
Si mettono a produrre flatulenze
Amplificate dalla tromba piena.

Tu mi dirai: che strane penitenze!
Ma tutto questo non è senza senso
Utilius est di tante altre violenze.

Il loro viver fu sì poco intenso
Che ora ad esser noti son forzati
Per via del puzzo che qui fanno denso.”

Pensavo di andar oltre quei dannati
Chè tanto mi sembravan degli inetti
Volea veder degl’inferi i magnati.

Ma non fè tempo a dire questi detti
Che un vecchio dalla lunga barba bianca
Mi prese l’attenzion e quindi stetti.

Mi disse “O è la tua memoria manca
Oppure fui davvero una gran schiappa
Se la tua mente a ricordarmi è stanca”

Portava sulla testa una gran cappa
Il naso suo era piatto e piccinino
In viso era più brutto d’una zappa.

E allor mi ricordai: era Alcuino!
Per cui una volta a Ciro un bel votaccio
La nostra profa mise sul taccuino.

Ma dissi “I’ chi tu se’ nun lu saccio”
Così fè io con far partenopeo
E al suo piede ,col mio, io feci schiaccio.

Lo feci perché,credo, un tal babbeo
Non merita questo mio raccontare
Inutil fu e inutile lo feo.

E d’ora avanti, se dirò “alcuinare”
Starà a significare che io parlo
Di cose a cui è più nobile il cacare.

Allontanatomi da quello tarlo
Avrei dovuto anche sputargli addosso
Ma troppo buon che son, non potrei farlo.

E se penso al mio amico, son commosso
A Ciro che un bel tre si portò a casa
Perché Alcuino avea in testa rimosso.

Oh gente stolta che la mente intasa
Fa finta d’esser grande ,invece è terra
E nostre conoscenze tutte sfasa

A voi io adesso, io dichiaro guerra
E spero che l’inferno sarà caldo
Per voi abbastanza a mo’ di effetto serra.

Con questi miei pensieri da ribaldo
Lasciai gli ignavi col sommo poeta
Che fece “Giovane, sei proprio baldo

Trattato l’hai come fosse una zeta
L’ultima nell’ordine dei verbi
Meno importante di Castellaneta”

Talvolta so esser stronzo come i Serbi
Se mi fanno venir l’incazzatura
Così come esti spirti tanto acerbi.

Or so che la mia anima più pura
Dovrò all’inferno mettere da parte
E andar col ghigno in bocca e faccia dura,

E bando a chi mi dice “Questa è arte!
Non puoi scrivere versi sì volgari!
Se vuoi far parolacce, va su Marte!”

A questi detrattori tanto cari
Io dico che se la materia è bassa
Gli stili a quella devon esser pari.

Adesso vostra mente è un poco lassa
Lettori che prestate a me l’orecchio
In base a ciò, il canto si rilassa.



CANTO III



Oh, miei lettori tanto ardimentosi
Che seguitate a leggere il mio canto
Adesso vi racconto dei golosi
Che di spanciate fecero il lor vanto
E che incontrai proprio a me di fronte
Col viso rotto da ferite e pianto.
Appena che passammo l’Acheronte
Lo duca ed io andammo pe ‘na piana
E poi un burrone sopra a cui era un ponte
E apparve una visione molto strana:
Un gruppo di dannati color rame
Balzavano veloci a mo’ di rana
Costoro andavan dietro ad un salame
Che un maialetto arrosto tenea in sella
E tutto quello provocommi fame.
Mi stupii sì da perder la favella
Ed il sommo poeta ,la mia guida,
Mi disse “Non crucciarti ,anima bella
Quei sono chi moderazione sfida
E mangia molto oltre a quel che può
Grigliata è lor compagna, la più fida.
Com’essi fenno proprio io non so
Ma sta di fatto ch’ora son puniti
E mentre tu ancor mangi,loro no
Correndo dietro a succulenti inviti
Che mai raggiungere potranno, sono
Preda dei più violenti vagiti
E sangue e pianto porta a loro in dono
E il primo fa la faccia tutta rossa
Ma adesso va e conosci quel che sono.”
M’avvicinai a quella folla grossa
E vidi uno dei peccator più buffi
Fra quelli che incontrai giù nella fossa.
Avea le guance tonde come i puffi
Il cranio raso e la pelle olivastra
E pancia come colma di batuffi.
Come medico, che guarda la lastra
Per scorgere se ci sia una frattura
Cos’io guardai lui ,la carne merdastra.
E disse “Sei tu qui per mia iattura
Oppure sei venuto a consolarmi
Per questa pena ch’è sì forte e dura?”
Mi mossi e nel mio a lui avvicinarmi
Compresi quale grande sofferenza
Provò pria e poi nel suo raccontarmi.
Mi si parò nella sua gran possenza
Poiché dalla sua schiera uscì veloce
Prendendosi una pausa ,con pazienza
Sul volto aveva un’espressione atroce
Sì gelida in contrasto a quel gran caldo
Che qui all’inferno mette tutti in croce.
E fece “Tu lo sai, io son Ronaldo
Ho dedicato la vita al pallone
E ancor di più ad ogni cibaria in saldo.
Per anni mi chiamarono panzone
Ché preferii la carne in vero al tocco
Con cui facea gollassi da campione
Ma adesso un dardo ardente tosto scocco
Lo scocco verso chi dovrebbe stare
Insieme a me, non meno di me allocco
Panzoni siamo in due, lo puoi narrare
Giocammo l’un con l’altro nel Brasile
E cibo ci fè pippe diventare.”
Così quell’uomo simile a un barile
Veloce ritornò fra tutti gli altri
La lingua in fuori, a vomitare bile.
Io invece ,proseguendo a passi scaltri
Raggiunsi quasi cima della fila
E feci “Quanta fame di voi altri!”
Mi divertivo a sfotter l’aprifila
Ma presto mi pentii quando conobbi
Il volto suo e mi si accese pila
Nelle cervella “Oh tifoso dei gobbi!”
Lo salutai “O vate dei fornelli!
Che del magro mangiar avversi lobbi!
Salute a te, o Pietro Bonverdelli!
Tu che insegnasti a me la tua sofia
Perché se’ qui, perché tu non favelli? “
E prese, come colto da follia,
ad esplicar pensieri come lagna
senz’interromper la sua corsa ria.
Gridò con forte forza “Franza o Spagna
A tutto noi va bene, io affermavo,
a noi tutto va buon purché se magna.
Nel dire questo, in questo io sbagliavo
Ché più di Dio in cuore avea il prosciutto
Ma di una grande cosa ragionavo.
Dell’uno, dello sfero in cui c’è tutto
Che senza tanti fronzoli o sollazzi
Fu gloria al mondo, come a me lo strutto.
E pure se i miei detti sembran pazzi
Con quelli io istruivo gli studenti
Distrussi religioni de ‘sti cazzi!
E se i miei dì poi fur concupiscenti
Ciò tolse a me quella spettabil gloria
Che fu la mia sofia per i discenti.
A te filosofia insegnavo, e storia,
entrambe, a dire il vero, molto bene,
citavo finocchiona e la cicoria.
Ti dico che lo sfero ti conviene
Ché in questo mondo in cui tu metti piede
A molteplicità è migliore il pene.
E giura, quando tu nel mondo riede,
racconterai e terrai di me il ricordo
che ancora in te sì potente risiede.”
Potevo a quella voce io esser sordo?
Ma proprio no, e quindi a lui promisi
Che detti avrei pensier con cui concordo.
E di parlar con elli allora smisi
Miglior profeta fu, e parmenideo
Per lui lo sfero risolvea le crisi.
Noi anime del brutto mondo, e reo
Dovremmo dare ascolto a questa alma
Che visse a sud del lago dell’Iseo.
E procedetti dunque in grande calma
Vedendo molte facce tra i magnoni
Come noci di cocco su ‘na palma.
Mi avrebbero mangiato anche i coglioni
Se avessero potuto ,sono certo
Ché fritti, credo, sono molto buoni.
E qui Dante ed io, nel piano aperto
Portammo l’uno e l’altro i nostri passi
Ed io da lui non fui mai più diserto.


CANTO IV


Dopo che della golosità
Superammo il ghiotto gironcino[1]
Dante disse “Qui adesso si va
Dove chi passione non del vino
Bensì del sentimentale scelse[2]
E fu di carattere fumino”.[3]
Ed un dubbio allora mi divelse[4]
E chiesi “Maestro, tu lo sai
Che in poesia nessun più di te eccelse.
Dunque dimmi tosto, come mai
Nella tua Commedia i lussuriosi
Vengon prima dei golosi guai?[5]
Questa idea nella mia mente posi
Ed i fatti in questa landa trista
Del tuo canto non son rispettosi”
E rispose “Oh, che nella lista
Dell’inferno io mi sia confuso?
Dai, vabbé, sarà stata una svista![6]
Sai,alla poesia non ero aduso
Prima di comporre la Commedia
Non far quindi il criticone ottuso![7]
Pria che con parole io ti tedia
Svelti andiamo verso quella conca
Che per i dannati è la tragedia”
Vidi dunque un tizio con la ronca
Sonnecchioso fare da guardiano
Alla pena che i dannati stronca.[8]
Essi aveano, intorno al deretano,[9]
una lunga cinta irta di nodi
che gli tormentavano il banano.



[1] Notare la splendida allitterazione della G, il cui suono gutturale ci fa chiaramente pensare alla barbarie primitiva del peccato di gola.
[2] Dante, usando anti teticamente il confronto fra la passione per il vino e quella per i sentimenti erotici, vuole indicare al poeta che egli si trova ora nel girone dei lussuriosi, ma al contempo mira a riaffermare la sua bravura come poeta. Commette però un errore che, come vedremo, l’autore sarà lesto a notare.
[3] La parola “fumino” è attestata in diversi codici del XXI secolo e sta per “incazzoso” ma anche per “preda degli istinti e delle passioni”
[4] Il poeta si accorge che Dante ,nella sua commedia, ha inserito i lussuriosi nel girone prima dei golosi, mentre nella realtà dell’Inferno le cose stanno diversamente. Egli rimane quindi scosso di fronte allo sbaglio di Dante, che egli riteneva infallibile. Si evidenzia in questo passo la tensione emotiva dell’animo del poeta, marcata dall’uso del verbo “divelgere” relativo ad un campo semantico certamente non emotivo, che si coniuga con la disperazione, forse un po’ infantile, ma certamente retrospettiva di uno status di sentimenti che non è altro che il punto cruciale della visione immaginifica del mondo così come è descritto dalla voce dei poeti. Evidente il richiamo alla concezione dell’arte in Heidegger, ovvero delle parole poetiche come meditazione storica sull’evento, e quindi come testimonianza dello svelamento dell’essere. Proprio per questo l’errore di Dante mette in subbuglio il poeta.
[5] Nuova mirabile allitterazione della G
[6] Dante è evidentemente imbarazzato, e cerca di minimizzare il suo errore come una semplice “svista”, ma anche la svista viene considerata come un peccato di sufficienza,non rispettoso del labor limae, e quindi in questo senso Dante si allontana dalla perfezione degna dei sommi poeti. La giustificazione successiva non fa che rinforzare il dubbio: Dante, prima di scrivere la Commedia, era un poetucolo qualunque.
[7] L’Alighieri spera di indurre il poeta a non criticarlo paragonandolo ai suoi nemici più feroci: i grandi critici letterari.
[8] Mirabile l’antitesi fra il guardiano sonnecchioso, forse perché stanco dalle fatiche amorose, e la pena che stronca i dannati.
[9] “Deretano” è parola molto amata dal poeta. Interessante la rima con la metafora fruttifera del “banano”



Per le donne, invece, erano chiodi[1]
Fissi su di castità cintura,
ciò che fa i piaceri lessi o sodi.
Mi stupii di quanto fosse dura
Quella penitenza e ad alta voce[2]
Dissi “Guarda che stronza sciagura!
Peggio quasi d’esser messi in croce”.[3]
E uno spirto ombroso e solitario
Nudo come il guscio di una noce[4]
Fece “Ho sentito un settenario
O un endecasillabo era forse?[5]
Chi c’è qua a vedere il mio Calvario?”[6]
Detto ciò, nel corpo lui si torse
E mostrommi il viso senza rugo[7]
Tra i rossi capelli occhio si scorse.
“Forse sai ch’io fui nomato Ugo
Nacqui sulle sponde di Zacinto[8]
E mangiavo tanta pasta al sugo![9]
Qui son da quando morte mi ha avvinto
Perché in vita troppe donne ebbi
E l’augello di rossetto tinto.[10]
Come un puttaniere io presto crebbi[11]
La mia patria era su a Venezia.
Che or la mia memoria non s’annebbi
Raccontar ti voglio la facezia
Che fu la mia vita in ver piccante[12]
Come nella ‘nduja rossa spezia.[13]




[1] Dopo aver descritto la pena degli uomini lussuriosi si passa a quella non meno terribile delle donne. Il richiamo all’usanza medievale della cintura di castità e squisitamente eziologico ed erudito.
[2] La barbarie della pena spinge il poeta a parlare da solo, cosa che non succederà più in seguito.
[3] Il riferimento alla Croce è un po’ blasfemo, ma ben si intona con l’atmosfera dissacrante del canto.
[4] La similitudine è attestata in molti manuali dell’epoca.
[5] Foscolo, da buon poeta, si ringalluzzisce sentendo dei versi , ma fa fatica a distinguere fra endecasillabo e settenario, per via dell’obnubilamento causato dalla pena. I versi sono in effetti endecasillabi.
[6] Nuova metafora dissacrante.
[7] Riferimento alla grande avvenenza del poeta di Zacinto.
[8] La caratterizzazione geografica è fondamentale, poiché all’epoca con il solo nome “Ugo” si tendeva a ricordare il grande personaggio Ugo Fantozzi. Foscolo ci tiene quindi a precisare che lui è nato a Zacinto.
[9] Leggende popolari volevano che coloro che avevano i capelli rossi, come di fatto Foscolo, o erano inviati del demonio o mangiavano troppa pasta al sugo. Il poeta, rifiutando la prima credenza, abbraccia la seconda, molto più scientifica.
[10] Il latinismo “augello” è di grande raffinatezza, il riferimento del verso è chiaramente ad una fellatio.
[11] Foscolo non ha peli sulla lingua a definirsi un “puttaniere”. La sincerità è tipica dei poeti preromantici.
[12] Da grande poeta qual è, Foscolo definisce prima la sua vita come una “facezia”, ma poi dice anche che è stata “piccante” e quindi ricca di particolari notevoli. E’ un espediente per catturare l’attenzione del lettore o dell’ascoltatore.
[13] Tipica metafora culinaria. Il riferimento alla ‘nduja, salume calabro, vuole forse anche avere una connotazione negativa, data la nota diffidenza dell’autore nei confronti delle spezie troppo saporite, a causa di un’ulcera terribile patita in gioventù.


Mica fui soltanto e solo amante
Io scrivevo pure, in prosa e in versi
Fra una scopata e l’altra, è rilassante.[1]
Agli occhi miei avevo fatto tersi
Tutti gli ideali in cui credevo
Moral, sociali,e molti altri diversi.[2]
E di questi ideali io scrivevo
E feci molti viaggi per l’Europa
E per la libertà io combattevo.
Ma se, tu sai, chi è come me, non scopa[3]
In poco tempo s’ammoscia e deprime
E ha bisogno in fretta d’una topa.
Perciò, per continuare a scriver rime
Avevo bisogno di far sesso
Per raggiunger di poesia le cime.
Dell’amore ero io il progresso
Ma per colpa di quel mio vizietto
Vedi tu dove io sono adesso.
Ed il pantalone mi sta stretto[4]
Ma più non mi posso denudare
E buttarmi dentro a qualche letto.[5]
Dico a te, che se tu vuoi amare
Ed al tempo stesso far poesia
Ben le cose devi bilanciare.[6]
Ogni eccesso della fantasia
Od oppure di passion terrena
È considerato una pazzia.
Ora, scusa, grattami la schiena[7]
Che mi dà tormento col prurito
Gratta qui, potente , in buona lena”
Io ,gentile, colsi quell’invito
Ed unghiai con forza la sua rogna
Lui fece una specie di nitrito.



[1] Qui Foscolo rende nota la sua colpa. Era sì poeta, ma lo faceva per hobby. Il suo principale lavoro era accoppiarsi con donne di tutte le risme. Egli cerca di puntare il faro su questo suo talento poetico, per far sì che il nostro autore non lo colpevolizzi troppo.
[2] Altro nobile riferimento agli ideali politici per cui Foscolo combatté a fianco di Napoleone, e ai suoi ideali libertari.
[3] Forse Foscolo era malato di satiriasi, ma non è certo. Comunque si definisce bisognoso di avere continui rapporti per poter continuare a scrivere. Tale demonizzazione della lussuria ,anche congiunta alla creazione artistica, è un valido richiamo alla filosofia ascetica di Schopenauer. Molto notevole è anche la rima ,decisamente espressiva, “scopa-topa”.
[4] Secondo diverse rappresentazioni pittoriche, alcuni lussuriosi erano costretti ad indossare, come pena supplementare, dei jeans molto attillati, così da costringere l’inguine in poco spazio e provocare atroci sofferenze.
[5] Riferimento alla furia con cui Foscolo si vorrebbe gettare nel talamo di qualche signorina.
[6] Difficile che questo appello alla moderazione possa sinceramente provenire dall’animo di Foscolo. E’ più probabile che siano invece le parole del poeta, che così si pone in diretto contrasto con i cosiddetti “poeti maledetti” ed invita ,secondo una concezione tipicamente aristotelica, a cercare la virtù nel mezzo delle cose. Poi prosegue con una condanna anche dell’eccessiva fantasia e di tutte le passioni terrene. E’ questa la noluntas di Schopenauer che entra prepotentemente nell’economia del poema.
[7] Versi che, con grande forza realistica, riportano alla cruda realtà delle pene infernali. Il grattare la rogna con le unghie è immagine desunta da Dante.


“Di qualunque cosa tu abbisogna”
Dissi poi cortesemente a quello
“Di chiederlo a me, nemmen ti sogna!”[1]
Seppur con compassione del suo augello[2]
Stretto e chiuso da sì tante corde.
M’allontanai, cantando uno stornello[3]
Non mi piace a me quel can che morde
Quando ti vuoi sbattere una tizia
Fa che le mie orecchie siano sorde
Al guaire , e che la mia malizia
Sia non poco né troppo discinta
Né troppa, né poca impudicizia.
Sempre costeggiando quella cinta
Di dannati casti ,ma per forza,
feci “Guarda! Si sarebbe estinta
Della nostra specie uman la scorza
Se sulla nostra terra vi imperasse
Tale castità, che lì si smorza”[4]
E il maestro “S’uno mai affermasse
Che l’amore rende bene al cuore
E ad amare bene lui invitasse.
Tutti griderebbero all’errore
Ascoltare i suoi presti consigli
Salvo poi ascoltarli nelle ore
In cui son chiusi in camera, vermigli.[5]
Non ti sembra questo poco giusto
Poco degno dell’amor dei figli?”
Io annuii e lo feci con gusto
Poi c’allontanammo dalla schiera
Dei casti lussuriosi ,dal lor fusto.[6]



[1] Il grattare la schiena di Foscolo è stata un’esperienza agghiacciante.
[2] Altro preziosismo latino.
[3] Lo stornello che segue è un altro invito alla moderazione. Né troppa né poca impudicizia, questo raccomanda il poeta. L’uso dello stornello romano è un richiamo all’ancestrale saggezza degli avi, che non tradisce mai e dispensa sempre buoni consigli.
[4] Il poeta dice a Dante che troppo moralismo può far male, e che non bisogna condannare a priori il piacere della carne. La risposta di Dante è in linea con le parole del poeta,  contiene anche un mirabile attacco al moralismo cieco e gretto della società moderna, ipocrita e falsa, quindi rimarcando il valore fondamentale e mistico dell’egoismo, contrapposto alla falsità della massa, su cui anche Nietschze aveva molto battuto. E’ il trionfo del connubio fra razionalismo ed empirismo. C’è un riferimento, un po’ sbiadito ma visibile, ai dialoghi platonici, in particolare al Fedone.
[5] Essere vermigli significa essere pazzi di passione.
[6] Non si sa bene se il fusto indichi il busto dei dannati, oppure qualcos’altro, un po’ più in basso. Molti critici propendono per questa seconda ipotesi, dato il contesto.



CANTO V
Girone degli avari e prodighi
Peccatori: Francesco Petrarca e Giovanni Boccaccio


In questo canto l’autore si mantiene sulla stessa linea del quarto, prendendo in esame peccati di incontinenza e parlamentando con due protagonisti della letteratura italiana: Petrarca e Boccaccio. Le loro figure sono presentate molto diversamente: mentre il Petrarca rimane in un certo senso chiuso in un’aura di magnificenza e di lirico distacco, Boccaccio si presenta nella sua forma più umana e dedica all’autore uno squisito passaggio riguardo la preparazione di un piatto tipico libanese, come il pollo con il limone. E’ una chiara metafora dell’intima sintesi hegeliana fra la materia e lo spirito, ove la natura, sebbene intesa come alienazione dell’idea, ha la capacità di conservare alcune tracce di attività spirituale, specialmente nell’ambito culinario.


 “Papè Satàn Papè Satàn Aleppe!”[1]
Disse un tal cagnaccio già ruggendo
Ed io feci “Seeh, mio nonno Peppe![2]
Scusa,ma che cazzo sta dicendo?”
Chiesi al duca con voce di dubbio
E rispose “Quei che sta esprimendo[3]
Era un cocker che viveva a Gubbio[4]
E fu ucciso un dì da Don Matteo[5]
Con un sacco colmo quanto un rubbio.[6]
Ora parla come fa un babbeo [7]
Fa la guardia ai prodighi e agli avari
Che qui son puniti dal pio Deo”.
Dunque andammo avante a piedi pari[8]
E scendemmo tosto in una gola
Con un puzzo forte da urinari.[9]
Dannati con color di coca cola[10]
Forte defecavano per terra
Mentre altri neanche una sola[11]
Goccia, se mia mente qui non erra[12]
Di pipì riuscivano a sputare
A vedere ciò, ognun s’aberra![13]
Facemmo noi a lor l’avvicinare
E il maestro svelto mi condusse[14]
Dove spirti due eran lì a penare.
A quella decisione egli addusse
Prove che quei erano famosi
“Ora prendon tante e molte busse[15]
Ma una volta furono gloriosi”
Disse il duca alzando in alto il braccio
Sono or qui fra prodighi e tirchiosi.
Son Cecco Petrarca e Gian Boccaccio[16]
L’uno tirchio come uno scozzese[17]
L’altro spendaccione ,ed io qui taccio”[18]
Un dei due la mano svelta tese[19]
Esclamò “Ma tu sei l’Alighieri
Duce dell’inferno e gran cortese![20]
Dante zitto, io con occhi interi[21]
Presentai me stesso con mitezza
“Son poeta di brevi pensieri”
Ed elli “Io spendea con allegrezza[22]
Io spendea e qui, per contrappasso,
soffro una dolente stitichezza.
Son Boccaccio e in questo crudo sasso
Sconto la mia pena senza inganno[23]
Lo stesso lui, sor Cecco, in stesso masso.
Io fui scrittore, come tutti sanno,
e se davvero sei giovin poeta[24]
voglio raccontarti come fanno
alla libanese il pollo: treta
finemente rosse e gran cipolle[25]
fino a ammorbidirle come seta.

Poi dal frigo tuo il pollo tolle[26]
mettilo a bagnare nel limone[27]
per due giorni. Sì ricetta volle.
Quando l’ora è giunta, il cucinone[28]
Tu prepara, prendi una padella
Buttaci cipolle e un pizzicone
Di sale e di olio una vasella
Dunque metti il pollo limonato[29]
E fallo rosolar, con fiamma bella.
Una volta che si è ben dorato
Spegni il fuoco e prendi di lattuga
Una bella foglia color prato.
Quindi posa foglia con la ruga[30]
Volta verso l’alto dentro al piatto
E poi il pollo, così che s’assuga.[31]
Ora il pollo è proprio tutto fatto
Prendi svelto allora la forchetta[32]
E tu mangia forte come un matto”.[33]
Sì Boccaccio disse la ricetta
Di quel pollo inver molto invitante
Ch’alla bocca fa venir l’acquetta.
Mentre Gianni facea lo parlante[34]
Il Petrarca rimaneva muto
Con un’espressione addolorante
Sì gli dissi “Uomo, ch’ai saputo[35]
Raccontare il tuo lauresco amore
Così bene da parer vissuto[36]
Dimmi tosto che t’abbatte il core
Forse posso solo un po’ aiutarti
E levarti un po’ dal tuo pallore”.



Lui rispose “Grazie, non crucciarti
D’esta miserabile persona
Non vale che tu prenda ad impegnarti
Per curare un’anima cogliona[37]
Dalla tirchieria che già lo afflisse
E non cacata, bensì cacatona[38]
E’ or forzato a far”. Sì quello disse
Ed io prudentemente me ne andai
Già temendo che cacar ne gisse[39]
Da quel loco degno dei porcai.
Dove avevo conosciuto due
Che ora soffron tanti e tanti guai,
ma una volta, ognuno all’ore sue,
mirabili scritture avean composte
degne d’un leone e non di un bue.[40]
Loro storie furon molto toste[41]
Nel senso ch’eran proprio fatte bene
E sono nell’Olimpo adesso poste.[42]
Lor creatori invece soffron pene
Poiché, si sa, che spesso chi arte scrive[43]
Ad esser santo raramente viene.
Come un peccatore spesso vive
Ma noi li ricordiamo per le opre
Fatte nel di lor cervello stive.
Come quando tante miglia copre[44]
Un cercatore e alla fine scava
E un tesoro sotto terra scopre,
sì io e il duca, in passo che menava
presto rivolgemmo i nostri piedi
verso un’altra landa certo schiava.


[1] Celebre riferimento al VII canto della Commedia di Dante, dove le parole sono pronunciate da Cerbero.
[2] Tutt’oggi il significato dell’affermazione è incomprensibile, e l’autore sottolinea con fermezza la sua incapacità di comprendere il significato della frase, attraverso l’uso del “seeh” ,tipica espressione colloquiale. Non si sa bene chi sia il Nonno Peppe. Forse un parente dell’autore, ma le interpretazioni sono diverse. Qualcuno ritiene che , leggendo il nome PEPPE al contrario(quindi EPPEP) si trovi un riferimento ad un faraone della XVII dinastia, AMENEPPHEPH, il quale, secondo un’antica leggenda, sarebbe stato lo zio del cugino del fratello della suocera del nipote del cognato di un messaggero che lavorava per il Diavolo e che era molto ghiotto di carne di cane. I dubbi restano.
[3] Qui “Esprimere” è usato con il significato di “parlare”.
[4] Il Cocker che viveva è Gubbio è storicamente esistito e, pare, un giorno addentò con violenza le chiappe dell’autore. Forse questo il motivo per cui poi fu relegato all’inferno come custode del girone degli avari e prodighi.
[5] Interessante antitesi: infatti la storiografia ci tramanda un’immagine molto pacifica e beata di Don Matteo, storico prete di Gubbio. L’autore invece ci dice che egli uccise con un sacco quel cane. Forse fu per vendetta, forse durante un accesso d’ira. Non si sa. Comunque, anche in questo caso l’immagine del prete è messa in luce sotto un aspetto molto carnale e quasi violento. Non si tratta tanto di anticlericalismo, quanto piuttosto di una nuova visione pan eidetica del momento topico del misticismo cristiano.
[6] “Rubbio” è termine medievale
[7] Il termine “Babbeo” è molto amato dall’autore.
[8] L’andare avanti a piedi pari, quindi con un chiarissimo riferimento alla matematica pitagorica, indica coloro che sono sicuri di sé e non cedono alle tentazioni.
[9] L’immagine dei bagni pubblici puzzolenti è molto frequenti nell’arte del tempo, un topos di prima importanza.
[10] Color marroncino.
[11] Mirabile descrizione della pena: mentre i prodighi sono costretti in eterno a produrre escrementi in grande quantità, gli avari non riescono né a pisciare né a cagare. Si tratta di un contrappasso per analogia.
[12] Il poeta si preoccupa sempre che il suo ricordo possa essere fallace.
[13] La forza della pena è data anche dalla doppia r di “Aberra”, con chiaro riferimento al ringhiare del cocker guardiano del girone.
[14] Dante sa chi dimora nel girone, e vuole far conoscere al suo adepto due grandi poeti del ‘300. L’azione di Dante è imperiosa, da vera guida e si esercita senza nemmeno bisogno di parole. Il Sommo Poeta semplicemente conduce il nostro autore verso i due dannati che gli vuole far conoscere.
[15] Si è molto discusso sull’uso del termine”busse” che è certamente a carattere ironico. Qualcuno ha sostenuto che Dante fosse contento di vedere i suoi rivali, Petrarca e Boccaccio, all’inferno.
[16] Il nomignolo “Cecco” riferito a Petrarca è attestato in numerosi codici antichi. Qualcuno ha sostenuto che le tre C del nome “Cecco” se intese come numeri romani, potrebbero indicare il 300, ovvero il secolo in cui visse il grande poeta.
[17] Il razzismo, specialmente nei confronti degli scozzesi, era molto presente al tempo. In realtà i più tacciati di tichieria erano i genovesi, ma pare che l’autore avesse una certa riverenza verso di questi ultimi, in quanto l’allenatore dell’Inter del tempo, Giampiero Gasperini, avesse a lungo operato come allenatore del Genoa.
[18] Dante non vuole andare oltre perché non vuole criticare troppo i due colleghi.
[19] Il movimento aerobico del tendere la mano riporta all’idea di movimento implicito nella teoria aristotelico-tolemaica.
[20] Il termine “cortese” ci riporta in ambito trecentesco.
[21] Gli occhi interi sono gli occhi non devastati dall’analitica del molteplice, che colgono attraverso l’intuiione sensibile la bellezza dell’arte. C’è quindi un chiaro riferimento ad Hegel e a Schelling.
[22] E’ Boccaccio che parla, da buon prosatore, è più loquace rispetto a Petrarca ,tutto immerso nella meditazione. Di grande valore lirico la rima “allegrezza-Stitichezza” ove il raddoppio delle z ci ricorda il brusio che all’inferno tormenta i dannati, oppure il suono inquietante delle scorregge.
[23] Non c’è scampo alla pena infernale.
[24] Si è sempre molto dibattuto sul perché Boccaccio voglia onorare un giovane poeta con il racconto di una ricetta. Probabilmente ciò ci riporta all’atmosfera realistica delle novelle del decameron, ove il cibo è sintomo di convivialità ed elemento importante della cultura popolare. Non dimentichiamoci poi che una delle costanti del poema è la passione del poeta per il cibo. Qualcuno ha voluto considerare il ricorso alla metafora culinaria come una sorta di captatio nei confronti del poeta, da parte di Boccaccio.  D’altra parte è noto che Boccaccio amasse la cucina esotica, e qualcuno sostiene anche che sia morto proprio a seguito di un’indigestione di pollo. La ricetta sarebbe quindi una sorta di riconferma del peccato da parte di Boccaccio che, inscrivendosi nella parentesi dell’atto carnale testimonierebbe la vacuità dell’aspetto ludico del pensiero medievale e delle leggende popolari filtrate attraverso l’annalistica agiografica tomistica.
[25] Le cipolle rosse sono quelle di Tropea. L’idea del colore rosso vuole chiaramente fare il paragone con il rosso del sugo del canto precedente, quello di Foscolo, ove l’idea del rosso aveva significato fisico riferito al colore dei capelli, mentre qui ha significato prettamente sensoriale, riferendosi alla qualità del sapore delle cipolle di Tropea. Non si sa bene perché i libanesi andassero fino a Tropea a reperire le cipolle.
[26] Il togliere qualcosa dal frigo è atto sacrale, come testimoniano numerosi volumi teologici.
[27] Il limone è simbolo di purificazione, come afferma Aristotele in molti dei suoi trattati. In ambito hegeliano il sapore aspro del limone simboleggia chiaramente l’antitesi, la negatività da superare per poter elevare la propria anima e quindi purificarsi.
[28] L’uso dell’accrescitivo aumenta l’idea di bontà del cibo. La stessa cosa vale per “pizzicone” ,due versi dopo.
[29] Squisito doppio senso riferito al termine “limonato”. Qualcuno sostiene che a Boccaccio piacesse baciarsi a lungo con i polli, ma probabilmente si tratta solo di una leggenda.
[30] La foglia con la ruga indica un pezzo pregiato di insalata.
[31] “assuga” è neologismo per indicare che l’olio del pollo, mischiandosi al trito di cipolle, crea un sughetto delizioso. L’uso del termine con la doppia “S” ci fa pensare al suono della saliva che sale in bocca.
[32] L’uso della forchetta, che evita di sporcarsi le mani con il cibo, rimanda ad un’ottica mistica secondo la quale mangiare attraverso l’uso di utensili servisse ad allontanare la tentazione del piacere carnale.
[33] Boccaccio invita spregiudicatamente ad abusare di cibo, alla stessa maniera dei matti. Potrebbe esere una provocazione, ma anche una voglia repressa.
[34] Il poeta introduce la figura di Petrarca in antitesi con Boccaccio: mentre l’uno parla l’altro sta zitto, addolorato. E’ chiaro il rimando alla sintesi degli opposti hegeliana.
[35] L’uso del termine “uomo” può anche essere inteso come dispregiativo. Non dimentichiamo che Petrarca è un dannato.
[36] Qui il poeta è un po’ malizioso, quando insinua che la storia d’amore di Petrarca con Laura sia tutta una balla, ma che lui l’ha raccontata talmente bene da farla sembrare vera.
[37] Petrarca, autocommiserandosi, si definisce “coglione”, un termine che però potrebbe anche alludere alla sua presunta abilità genitale.
[38] Mirabile l’accostamento di un termine (cacata) e del suo accrescitivo(cacatona). Indica l’idea del flusso progressivo,della continua avanzata.
[39] Uno dei versi forse più celebri dell’intero poema. L’autore, spaventato per paura che Petrarca gli cachi addosso, se ne va via di corsa, lasciando la miserabile anima alle sue povere pene. Il verso è privo di pietà, duro e freddo come gli escrementi che Petrarca deve buttar fuori dal sedere.
[40] La metafora animale serve ad indicare l’ammirazione del poeta verso i suoi predecessori. Il bue è infatti spesso caratterizzato come “tardo”(vedi Tibullo) mentre il leone è possente.
[41] “Tosto” è termine gergale.
[42] Per Olimpo s’intende la vetta della poesia. Forse il poeta avrebbe dire “Parnaso”, ma non è il caso di romperci gli zebedei con questi dubbi.
[43] Mirabile riflessione posta al termine del canto. Molto spesso gli artisti non riescono a condurre una vita retta e impostata su principi morali, così come molto spesso noi consideriamo le persone in baso a quello che fanno, e non in base a quello che sono. C’è qui tutto il distacco tra realtà e apparenza, desunto direttamente da Schopenauer. Il velo tenebroso dell’arte è solamente una chimera dietro cui si cela la vanità delle cose umane e la negligenza dei comportamenti virili. D’altro canto il poeta, facendo quest’affermazione, vuole in certo senso lasciarsi una speranza aperta, ovvero quella che lui, avendo scritto un poema sacro e benedetto dal sommo poeta Dante Alighieri, riesca a sfuggire al triste destino di Petrarca e Boccaccio.
[44] La similitudine del cercatore, come affermato in più occasioni dallo stesso poeta, non c’entra assolutamente un cazzo con il contesto del canto, ma è stata messa lì per fare una bella rima e concludere in bellezza.



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