sabato 30 novembre 2013

Il punto di vista dell'attesa-2



“E dopo” mi disse il prete “il fuoco si spenge”. Ma da qualche parte dovrà pur continuare a bruciare. Speriamo non sia nel mio di dietro. Dicono che quando un uomo sta per morire tutta la vita gli passi davanti, ma è una balla spaziale. Ti devi sforzare già abbastanza per prolungare i tuoi ultimi respiri per poter perdere tempo a ricordare. Mi sono accorto solo morendo che la morte è questione di bassa lega. La noia dell’agonia prende il sopravvento e il fatto che tua figlia stia piangendo di fronte a te lacrime bollenti non ti dispiace neanche più. In effetti ti secca anche un pochino. Trovi un po’ di concentrazione per riuscire ad ascoltare il rintocco dell’orologio. Ti accorgi che la stanza è buia. Pensi, ma quando finirà? E speri finisca presto. Non facciamoci turbe mentali: la verità è che la vera sfida sta nel rendersi conto della morte più che nell’affrontarla. All’ora di spirare siamo tutti grandi eroi, ma dovevate vedermi qualche mese fa, a correre da un ospedale all’altro, a presentarmi portato a braccia da quattro persone elemosinando una compressa dal nome impronunciabile e dal colore arcobaleno che potesse farmi pisciare, cagare, deglutire, starnutire, ruttare, vomitare, dormire, incazzarmi e sorridere. E lo facevo senza vergogna, quella stessa vergogna che ora ho, ma che cerco di nascondere. Quando ho smesso di preoccuparmi, forse una settimana fa, forse anche meno, ho anche smesso di ricordare. Prima ero tutto un ricordo. Quella volta che strinsi la mano ad Andreotti: accidenti, è morto pure lui; quella volta che pranzai con Agnelli: anche lui andato; quella volta che ho regalato una bambola a mia figlia per Natale: lei almeno è ancora qui, anche se vorrei la smettesse di disturbarmi coi suoi piagnistei. La sensazione che più associo alla morte è il fastidio: per lo scorrere del tempo, anzitutto, che diventa un inutile aggravio della pena già di per sé severa; poi per la commozione degli astanti, in piedi sulla soglia o in piccoli gruppi o solitari con le braccia conserte. Mi irritano i pensieri che fanno e che non so e che non mi vogliono dire. Vorrei sapere tutto, ora che sto per andare. Chi mi odia, chi prova invidia o compassione o tristezza o pena. Che l’occhio veda pure: di questi tempi il cuore ha ben altro di cui dogliarsi. L’indignazione che conquista quasi tutti per l’assenza, pur giustificata, di mio nipote non mi appartiene. L’ultima volta che l’ho visto ho avuto modo di capire che mi vuole bene. Tanto basta adesso, perché lui ha i fatti suoi e io i miei, anche se non lo do a vedere. Mi faccio tante domande. Quando scema il fastidio sorge la curiosità. A partire dal mistero comune: chi c’è dall’altra parte, se c’è qualcuno? E soprattutto,  a Lui gliene fregherà qualcosa di noi? Se posso consegnare l’ultima perla di saggezza del relitto in avaria, io sono convinto che Dio esista, ma spero con tutto il cuore che se ne infischierà altamente di me. Spero che la mia vita eterna si risolva in un sostanziale pensionamento, senza dover rendere conto a nessuno. Preferirei che ignorassero quelle cose buone che potrei aver fatto ma anche quelle cattive che di sicuro ho fatto e che ora alla mia memoria non sovvengono. Se proprio deve esserci un giudizio, che mi reincarnino nel corpo di un’ape o di un serpente o di una sterpaglia del sottobosco alpino, come credono succeda in India o giù di lì. Sarebbe molto meno umiliante che dover essere giudicati da Dio. Quando sono stato giudicato dagli uomini, e qualche volta sono stato giudicato male, mi sono salvato ripetendo a me stesso che i giudici sbagliano come me: ogni giorno, coi loro figli, le loro mogli, i loro amici e il loro lavoro. Solo perché era il mio turno non significava escludere loro dal gioco. Con Dio il privilegio dell’equità spirituale non lo avrei e mi sentirei parecchio a disagio. “E dopo il fuoco si spenge” mi disse il prete “Ma solo per riaccendersi più forte da un’altra parte”. Speriamo non nel mio di dietro.

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