mercoledì 16 ottobre 2013

Quarto scrutinio




Quarto scrutinio:
19 aprile

Da adesso il quorum si è abbassato. Bastano 504 voti per eleggere il nuovo presidenti. Mentre io cammino faticosamente lungo i corridoi del transatlantico per colpa di un panino che ho ancora sullo stomaco(dannato me che non sono voluto andare a mangiare al ristorante del palazzo) apprendo che ,fallite le trattative con l’opposizione, abbiamo deciso di votare un candidato nostro. Finalmente, era ora. Ovviamente chiuso un problema se ne aprono altri due: chi votare? Molti dei nostri vogliono ad ogni costo l’intesa con l’altra parte. Dicono che non possiamo inimicarci il maggior partito dell’opposizione. In parte concordo con loro, ma questo non vuol dire eleggere uno a caso solo per metterci d’accordo. Da soli possiamo contare su 537 grandi elettori. E’ abbastanza per farcela. Ma saremo uniti? Non posso nascondere di essere un po’ nervoso. Non sono l’unico qua dentro. E’ normale, in questi momenti, anche per chi ha più esperienza. E’ sempre un mettersi alla prova. Non è un dramma se il nome che hai scelto non ce la fa, ma è comunque una brutta figura. Son sempre cose che contano. La cosa mi aiuta: sapere che il segretario è nervoso, vederlo muoversi troppo velocemente dentro l’aula sfoggiando sorrisi che non gli appartengono, è una visione rincuorante. La chiama è iniziata da pochi minuti. Sfilano tutti. E’ un’occasione importante. Mi ricorda un quadro. L’aula tappezzata di rosso. Una danza. Un ballo di corte. I passi solo apparentemente sono casuali. E’ tutto misurato. Gli sguardi, il tempo di permanenza all’interno della cabina. Le pacche sulle spalle. Noi giovani guardiamo. E impariamo. Se faremo carriera dovremo essere capaci di fare le stesse cose un domani. E qui non c’entra il bene o il male. Sono le basi del mestiere, per tutti. Buoni e cattivi. Buoni o cattivi. Io prendo appunti sul foglio che ho davanti, seduto al mio scranno. Disegno quello che vedo. Ci provo almeno. La prima pagina è l’aula, in tutto il suo splendore. La seconda pagina è un gruppo di persone che vedo parlare. Maggioranza e opposizione. Discutono tranquillamente, con facce serie ma distese. La terza è per il viso di Margiotta. E’ la pagina nascosta. L’ho fatto proprio adesso, senza pensarci. Perché mi è passata davanti. Si è messa a parlare con gli altri. Io mi sono messo a guardare. A guardarla. La dinamica dell’azione mi è sfuggita di mano. Lei ha fatto un gesto di scatto, io ho fatto uno sbaffo sul foglio. Mi viene ancora da piangere. E dire che non credevo nemmeno di saper disegnare. Era da anni che non provavo. E’ bellissima, Margiotta. Quel suo corpo da con-la-cultura-non-si-mangia è da mozzare il fiato. Strano che non l’abbia mai vista in tv. Ma io non guardo mai la tv. Forse sbaglio. Mi alzo,dopo aver chiuso il quaderno degli appunti. La lezione è finita. Il resto oggi lo posso imparare da me. Mi hanno detto di scrivere “Munari” sul foglio. E’ un uomo che stimo. Lo conosciamo tutti, noi del partito, fin da quando eravamo bambini. E’ lui, molto spesso, che ci ha fatto venire voglia di far politica. Ma ,si sa, è un uomo di parte. E quanti di quelli che hanno fatto il loro passo prima di me hanno scritto il suo nome? Quando squilla il mio nome vado veloce alla cabina, non riesco più ad ascoltare nessuno. Le voci si confondono, suona musica nella mia testa. Mi succede sempre così quando sono nervoso. La musica, coordinata al battito del cuore, continua anche quando esco. Un passo, due passi. Mi stanno osservando. E’ come ai saggi di scuola. Provo a ricordare. “Tutto bene?”.  E per poco non mi accascio. Fermo. Fermati! “Sì si…grazie” le dico. Lei annuisce. E ora sono nervoso per lei. Non c’è verso di uscirne. E’ proprio accanto a me. Chissà, forse ha scritto “Munari” anche lei. Non avevo notato il suo naso a patatina. Non avevo notato che i suoi occhi fossero verdi. Credevo castani. “Ho solo bisogno di un po’ d’aria” sussurro senza neanche disturbarmi a sorridere. Lei capisce e fa un gesto con la mano, come per indicarmi la strada. Cosa succede? Succede che la chiama va avanti e noi siamo gli unici due stronzi fermi proprio vicino alle cabine. Ancora un po’ e i commessi ci porteranno via di peso. Inizio a camminare. Il rosso mi acceca ora. Ho mal di testa. Oppure sto facendo solo finta. Margiotta cammina con me. Andiamo dalla stessa parte. Dovunque io stia andando. Pare determinata. Fortuna che i colleghi non badano a me. Mi vedessero con una così sarebbe il delirio. Ma in fondo loro chi cazzo sono? Oggi potremmo vincere.  Ma bisognerà aspettare le sei passate. Dove sarà mai Munari in questo momento? Non so nemmeno se gli hanno chiesto la disponibilità ad essere eletto. Magari è sul divano e si sta chiedendo perché. Magari è solo un vecchio che ha voglia di smetterla come mio nonno voleva smettere di lavorare in fabbrica. Magari noi stiamo solo prolungando l’agonia di un uomo, costringendolo ad andare dove non vuole. Appena uscito fuori dall’aula devo precipitarmi in bagno. Vomito. Ora so per certo che quel panino mi ha fatto male. Mi sciacquo la bocca, bevo un sorso d’acqua. Mi sento meglio. Appena esco dal bagno Margiotta mi aspetta. Credo che in questo momento capo Horn sia un posto dove mi piacerebbe trascorrere il resto della mia vita. Ma lei vuole sfidare il mio disagio.  La gonna scura che porta la stringe forte ai fianchi. Deve essere dannatamente scomoda. Ma è anche bella e corta al punto giusto, senza essere troppo volgare. Margiotta deve avere qualcuno che la consiglia su come vestirsi. Come si vestiva prima di entrare qui in parlamento? Come si veste quando esce la sera? “Mi hai fatto preoccupare” mi dice con voce piatta. Io mi scuso. “Posso dedurre da quello che ho visto che il candidato che hai votato non ti piaceva particolarmente?” cerca di scherzare, ma io mi affretto a negare. “In realtà non credo ci sia uomo migliore…riguardo a me, deve essere stato il pranzo a farmi male”. Margiotta annuisce. Il primo bottone della sua giacca nera è aperto: ha una catenina d’oro al  collo. Posso vedere il primo accenno del suo seno sotto alla camicia di raso nero, aperta in cima anche lei. Ora so perché l’ho disegnata: non è vera. E’ una cosa che non è realtà. Non riesco a trovarle un difetto, e la cosa mi fa diventare pazzo. Vorrei averla dalla mia parte. Vorrei condividere con lei le proposte di legge, o i candidati presidente. “Ti offro un caffè?” mi chiede, con le braccia ancora conserte. Ormai mi sono completamente arreso. Sto troppo male per poter ribattere. Le pongo un’unica condizione, “Basta sia fuori di qui, per favore”. Non fa obiezioni e iniziamo a camminare. Io più veloce di lei, perché voglio dimostrarle che sono il più forte. Che ho ragione. Ho passato dieci anni della mia vita a rassicurare mia madre e mia sorella sul mio odio per quelle facce da troia lì alla tivù e ora ci vado insieme al bar. Mi sento disgustoso ed arrabbiato. Margiotta se ne accorge ed accelera il passo appena fuori da Montecitorio. Ora siamo fianco a fianco e lei mi guarda da dietro gli occhiali da sole. C’è qualche giornalista, ma non badano a noi. Nessuno ci conosce e sanno che non siamo autorizzati a parlare. Ci sono i portavoce e i capigruppo per quello. Passano solo un paio di minuti e riesco a respirare di nuovo come prima. Il sole picchia forte e sono costretto a stringere gli occhi. E’ una bella giornata su Roma. Cerco un po’ di ombra camminando radente al muro. “Grande invenzione, gli occhiali da sole” dice Margiotta. Mi viene da ridere. Finalmente. “Li ho lasciati a casa” faccio allargando le braccia. “Ti darei i miei ma…” , “Non credo siano il mio modello” sorrido “E poi dopo ti rovineresti gli occhi” dico ma lei scuote la testa. “A me non dà fastidio il sole”. Mi propone di sederci in un bar. Siamo in piena primavera e i fiori,persino quelli dei vasi fuori dai locali, sono belli. Non mi ricordo nemmeno l’ultima volta che ho preso un caffè. E’ stato stamattina,forse, oppure la settimana scorsa. Non ne sopporto l’amaro e devo sempre riempirlo di zucchero, ma non voglio nemmeno prendermi il diabete e allora spesso rinuncio. Ma oggi non posso rinunciare. L’ultima volta che mi sono sentito in dovere di non rifiutare un caffè fu quando me lo offrì il sindaco del mio paese. Oggi me lo vuole offrire Margiotta. E’ strano come non tenti di parlare. Ordina due caffè, poi si siede di fronte a me, incrocia le mani sul tavolo, guarda in basso, poi prende l’iphone, lo poggia sul tavolo, controlla i messaggi, mi guarda e si sposta una ciocca di capelli che le cade proprio sopra l’occhio sinistro. “Sai, non sono ancora abituato” dico alla fine, guardando lontano. “Credo sia normale” mi risponde subito “E’ una nuova routine, nuovi orari, nuovi ritmi”. Non parla di nuove responsabilità, ma è ovvio: a loro di questo non importa nulla. E a me?
“E’ che sinceramente questa storia mi sta già stancando…non vedo vie d’uscita”. Lei mi guarda , questa volta negli occhi: “Oggi ne avete una facile facile” dice, io annuisco “Già, speriamo” ma parlo con la voce bassa e grave di chi ormai non crede. E questo non le sfugge. E’ troppo intelligente Margiotta per essere una di loro. Non poteva venire da noi? L’avremmo presa e piazzata da qualche parte in lista. Parla bene, è fine ed elegante, è straordinariamente bella…perché vanno tutte da loro? “Non ti fidi neanche tu eh?” dice sorridendo. Sono stato sorpreso. Ora non so che fare. Per quanto ne so lei potrebbe pure essere qui per far la spia. Dovrei confessarmi o dovrei solo chiederle di venire a letto con me? “Se non parli non farai che confermare i miei sospetti”. Non parlo. Tanto ho sempre creduto che oggi non ce la faremo. Finiremo sotto ancora una volta. Come minimo ci mancheranno cento voti. Tutti quelli che hanno sussurrato al segretario “rompere il dialogo è una pazzia”, tutti quelli che non si vergognano di farsi vedere in giro con gente dell’altra parte. Al contrario di me, che mi vergogno di Margiotta, ma non ho cuore di dirglielo.

Dopo pochi istanti posso capire che il mio silenzio la sta irritando. “Scusa” mormoro senza guardarla. “Perché?” mi domanda, “Non…non dico niente”. “E’ quello che ti rende interessante” dice e poi si alza. “Domani mattina, quando torneremo a votare, fammi sapere se vuoi riprovare l’esperienza di stare muto con me”. Esce dal bar. Guardo l’orologio: sono le quattro e mezza. Mi chiedo cosa ci sto facendo qui. Prendo la giacca ed esco anch’io. Cammino da solo per Roma. Sono già le sei quando, finalmente, entro in casa mia e quasi mi sento mancare il respiro. 

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