19 aprile
Da adesso il
quorum si è abbassato. Bastano 504 voti per eleggere il nuovo presidenti.
Mentre io cammino faticosamente lungo i corridoi del transatlantico per colpa
di un panino che ho ancora sullo stomaco(dannato me che non sono voluto andare
a mangiare al ristorante del palazzo) apprendo che ,fallite le trattative con
l’opposizione, abbiamo deciso di votare un candidato nostro. Finalmente, era
ora. Ovviamente chiuso un problema se ne aprono altri due: chi votare? Molti
dei nostri vogliono ad ogni costo l’intesa con l’altra parte. Dicono che non
possiamo inimicarci il maggior partito dell’opposizione. In parte concordo con
loro, ma questo non vuol dire eleggere uno a caso solo per metterci d’accordo.
Da soli possiamo contare su 537 grandi elettori. E’ abbastanza per farcela. Ma
saremo uniti? Non posso nascondere di essere un po’ nervoso. Non sono l’unico
qua dentro. E’ normale, in questi momenti, anche per chi ha più esperienza. E’
sempre un mettersi alla prova. Non è un dramma se il nome che hai scelto non ce
la fa, ma è comunque una brutta figura. Son sempre cose che contano. La cosa mi
aiuta: sapere che il segretario è nervoso, vederlo muoversi troppo velocemente
dentro l’aula sfoggiando sorrisi che non gli appartengono, è una visione
rincuorante. La chiama è iniziata da pochi minuti. Sfilano tutti. E’
un’occasione importante. Mi ricorda un quadro. L’aula tappezzata di rosso. Una
danza. Un ballo di corte. I passi solo apparentemente sono casuali. E’ tutto
misurato. Gli sguardi, il tempo di permanenza all’interno della cabina. Le
pacche sulle spalle. Noi giovani guardiamo. E impariamo. Se faremo carriera
dovremo essere capaci di fare le stesse cose un domani. E qui non c’entra il
bene o il male. Sono le basi del mestiere, per tutti. Buoni e cattivi. Buoni o
cattivi. Io prendo appunti sul foglio che ho davanti, seduto al mio scranno.
Disegno quello che vedo. Ci provo almeno. La prima pagina è l’aula, in tutto il
suo splendore. La seconda pagina è un gruppo di persone che vedo parlare.
Maggioranza e opposizione. Discutono tranquillamente, con facce serie ma
distese. La terza è per il viso di Margiotta. E’ la pagina nascosta. L’ho fatto
proprio adesso, senza pensarci. Perché mi è passata davanti. Si è messa a
parlare con gli altri. Io mi sono messo a guardare. A guardarla. La dinamica
dell’azione mi è sfuggita di mano. Lei ha fatto un gesto di scatto, io ho fatto
uno sbaffo sul foglio. Mi viene ancora da piangere. E dire che non credevo
nemmeno di saper disegnare. Era da anni che non provavo. E’ bellissima,
Margiotta. Quel suo corpo da con-la-cultura-non-si-mangia è da mozzare il
fiato. Strano che non l’abbia mai vista in tv. Ma io non guardo mai la tv.
Forse sbaglio. Mi alzo,dopo aver chiuso il quaderno degli appunti. La lezione è
finita. Il resto oggi lo posso imparare da me. Mi hanno detto di scrivere
“Munari” sul foglio. E’ un uomo che stimo. Lo conosciamo tutti, noi del
partito, fin da quando eravamo bambini. E’ lui, molto spesso, che ci ha fatto
venire voglia di far politica. Ma ,si sa, è un uomo di parte. E quanti di
quelli che hanno fatto il loro passo prima di me hanno scritto il suo nome?
Quando squilla il mio nome vado veloce alla cabina, non riesco più ad ascoltare
nessuno. Le voci si confondono, suona musica nella mia testa. Mi succede sempre
così quando sono nervoso. La musica, coordinata al battito del cuore, continua
anche quando esco. Un passo, due passi. Mi stanno osservando. E’ come ai saggi
di scuola. Provo a ricordare. “Tutto bene?”.
E per poco non mi accascio. Fermo. Fermati! “Sì si…grazie” le dico. Lei
annuisce. E ora sono nervoso per lei. Non c’è verso di uscirne. E’ proprio
accanto a me. Chissà, forse ha scritto “Munari” anche lei. Non avevo notato il
suo naso a patatina. Non avevo notato che i suoi occhi fossero verdi. Credevo
castani. “Ho solo bisogno di un po’ d’aria” sussurro senza neanche disturbarmi
a sorridere. Lei capisce e fa un gesto con la mano, come per indicarmi la
strada. Cosa succede? Succede che la chiama va avanti e noi siamo gli unici due
stronzi fermi proprio vicino alle cabine. Ancora un po’ e i commessi ci
porteranno via di peso. Inizio a camminare. Il rosso mi acceca ora. Ho mal di
testa. Oppure sto facendo solo finta. Margiotta cammina con me. Andiamo dalla
stessa parte. Dovunque io stia andando. Pare determinata. Fortuna che i
colleghi non badano a me. Mi vedessero con una così sarebbe il delirio. Ma in
fondo loro chi cazzo sono? Oggi potremmo vincere. Ma bisognerà aspettare le sei passate. Dove
sarà mai Munari in questo momento? Non so nemmeno se gli hanno chiesto la
disponibilità ad essere eletto. Magari è sul divano e si sta chiedendo perché.
Magari è solo un vecchio che ha voglia di smetterla come mio nonno voleva
smettere di lavorare in fabbrica. Magari noi stiamo solo prolungando l’agonia
di un uomo, costringendolo ad andare dove non vuole. Appena uscito fuori
dall’aula devo precipitarmi in bagno. Vomito. Ora so per certo che quel panino
mi ha fatto male. Mi sciacquo la bocca, bevo un sorso d’acqua. Mi sento meglio.
Appena esco dal bagno Margiotta mi aspetta. Credo che in questo momento capo
Horn sia un posto dove mi piacerebbe trascorrere il resto della mia vita. Ma
lei vuole sfidare il mio disagio. La
gonna scura che porta la stringe forte ai fianchi. Deve essere dannatamente
scomoda. Ma è anche bella e corta al punto giusto, senza essere troppo volgare.
Margiotta deve avere qualcuno che la consiglia su come vestirsi. Come si
vestiva prima di entrare qui in parlamento? Come si veste quando esce la sera?
“Mi hai fatto preoccupare” mi dice con voce piatta. Io mi scuso. “Posso dedurre
da quello che ho visto che il candidato che hai votato non ti piaceva
particolarmente?” cerca di scherzare, ma io mi affretto a negare. “In realtà
non credo ci sia uomo migliore…riguardo a me, deve essere stato il pranzo a
farmi male”. Margiotta annuisce. Il primo bottone della sua giacca nera è
aperto: ha una catenina d’oro al collo.
Posso vedere il primo accenno del suo seno sotto alla camicia di raso nero,
aperta in cima anche lei. Ora so perché l’ho disegnata: non è vera. E’ una cosa
che non è realtà. Non riesco a trovarle un difetto, e la cosa mi fa diventare
pazzo. Vorrei averla dalla mia parte. Vorrei condividere con lei le proposte di
legge, o i candidati presidente. “Ti offro un caffè?” mi chiede, con le braccia
ancora conserte. Ormai mi sono completamente arreso. Sto troppo male per poter
ribattere. Le pongo un’unica condizione, “Basta sia fuori di qui, per favore”.
Non fa obiezioni e iniziamo a camminare. Io più veloce di lei, perché voglio
dimostrarle che sono il più forte. Che ho ragione. Ho passato dieci anni della
mia vita a rassicurare mia madre e mia sorella sul mio odio per quelle facce da
troia lì alla tivù e ora ci vado insieme al bar. Mi sento disgustoso ed arrabbiato.
Margiotta se ne accorge ed accelera il passo appena fuori da Montecitorio. Ora
siamo fianco a fianco e lei mi guarda da dietro gli occhiali da sole. C’è
qualche giornalista, ma non badano a noi. Nessuno ci conosce e sanno che non
siamo autorizzati a parlare. Ci sono i portavoce e i capigruppo per quello.
Passano solo un paio di minuti e riesco a respirare di nuovo come prima. Il
sole picchia forte e sono costretto a stringere gli occhi. E’ una bella
giornata su Roma. Cerco un po’ di ombra camminando radente al muro. “Grande
invenzione, gli occhiali da sole” dice Margiotta. Mi viene da ridere.
Finalmente. “Li ho lasciati a casa” faccio allargando le braccia. “Ti darei i
miei ma…” , “Non credo siano il mio modello” sorrido “E poi dopo ti rovineresti
gli occhi” dico ma lei scuote la testa. “A me non dà fastidio il sole”. Mi
propone di sederci in un bar. Siamo in piena primavera e i fiori,persino quelli
dei vasi fuori dai locali, sono belli. Non mi ricordo nemmeno l’ultima volta
che ho preso un caffè. E’ stato stamattina,forse, oppure la settimana scorsa.
Non ne sopporto l’amaro e devo sempre riempirlo di zucchero, ma non voglio
nemmeno prendermi il diabete e allora spesso rinuncio. Ma oggi non posso
rinunciare. L’ultima volta che mi sono sentito in dovere di non rifiutare un
caffè fu quando me lo offrì il sindaco del mio paese. Oggi me lo vuole offrire
Margiotta. E’ strano come non tenti di parlare. Ordina due caffè, poi si siede
di fronte a me, incrocia le mani sul tavolo, guarda in basso, poi prende
l’iphone, lo poggia sul tavolo, controlla i messaggi, mi guarda e si sposta una
ciocca di capelli che le cade proprio sopra l’occhio sinistro. “Sai, non sono
ancora abituato” dico alla fine, guardando lontano. “Credo sia normale” mi
risponde subito “E’ una nuova routine, nuovi orari, nuovi ritmi”. Non parla di
nuove responsabilità, ma è ovvio: a loro di questo non importa nulla. E a me?
“E’ che
sinceramente questa storia mi sta già stancando…non vedo vie d’uscita”. Lei mi
guarda , questa volta negli occhi: “Oggi ne avete una facile facile” dice, io
annuisco “Già, speriamo” ma parlo con la voce bassa e grave di chi ormai non
crede. E questo non le sfugge. E’ troppo intelligente Margiotta per essere una
di loro. Non poteva venire da noi? L’avremmo presa e piazzata da qualche parte
in lista. Parla bene, è fine ed elegante, è straordinariamente bella…perché
vanno tutte da loro? “Non ti fidi neanche tu eh?” dice sorridendo. Sono stato
sorpreso. Ora non so che fare. Per quanto ne so lei potrebbe pure essere qui
per far la spia. Dovrei confessarmi o dovrei solo chiederle di venire a letto
con me? “Se non parli non farai che confermare i miei sospetti”. Non parlo.
Tanto ho sempre creduto che oggi non ce la faremo. Finiremo sotto ancora una
volta. Come minimo ci mancheranno cento voti. Tutti quelli che hanno sussurrato
al segretario “rompere il dialogo è una pazzia”, tutti quelli che non si
vergognano di farsi vedere in giro con gente dell’altra parte. Al contrario di
me, che mi vergogno di Margiotta, ma non ho cuore di dirglielo.
Dopo pochi
istanti posso capire che il mio silenzio la sta irritando. “Scusa” mormoro
senza guardarla. “Perché?” mi domanda, “Non…non dico niente”. “E’ quello che ti
rende interessante” dice e poi si alza. “Domani mattina, quando torneremo a
votare, fammi sapere se vuoi riprovare l’esperienza di stare muto con me”. Esce
dal bar. Guardo l’orologio: sono le quattro e mezza. Mi chiedo cosa ci sto
facendo qui. Prendo la giacca ed esco anch’io. Cammino da solo per Roma. Sono
già le sei quando, finalmente, entro in casa mia e quasi mi sento mancare il
respiro.
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