20 Aprile
Margiotta
non c’è. Ma è come se ci fosse. Guardo il suo scranno vuoto e posso immaginarmela
tutta. Con un tailleur scuro, la giacca sbottonata, la camicia aperta tanto che
si veda il reggiseno. Magari di pizzo. Ha fatto bene a non venire oggi
pomeriggio. Così posso disegnarla io, senza essere disturbato dalla realtà.
Tengo la braccia conserte sopra il mio banco. Fisso la prima pagina del
giornale. L’avrò riletta almeno venti volte. Ma non sono mai andato oltre. La
seduta è quasi finita, stanno scrutinando le ultime schede. Stamattina è stato
un nulla di fatto: un bel botto, un colpo secco. Le volte precedenti si votava
a vuoto sì, ma c’era l’idea che quella indecisione stesse per attendere una
decisione che, di lì a poco, sarebbe arrivata. Dopo il fallimento del nostro
candidato di bandiera adesso è davvero il nulla. Adesso si vota bianca veramente
perché non si sa chi cazzo votare. Non perché non ci sia accordo. Con il casino
che già sta montando la stampa, internet e il pubblico in generale sulla nostra
inanità credo sinceramente che un accordo lo vorrebbero tutti. Solo che non si
riesce a trovare il nome. Se avessimo un governo sarebbe tutto più facile,
allora sì che questa elezione sarebbe solo una formalità. Ma il governo non c’è
ed allora ogni nome può voler dire qualcosa adesso, qualcosa per il dopo. C’è
il nome di chi vuole le larghe intese, c’è il nome di chi fa il duro e puro,
c’è il nome di chi vorrebbe fare la rivoluzione ma non sa nemmeno dove
iniziare, c’è il nome di chi si accontenterebbe di una brava persona. Io
problemi di nomi non me ne faccio. Fosse per me quasi che voterei Margiotta. Ho
in testa solo lei. Sarà a camminare per le strade di Roma, con questo bel sole
al tramonto. Quando me ne vado la seduta deve ancora finire. Mi ricorda quando
uscivo sempre cinque minuti prima delle sette dall’aula ,per arrivare in tempo
all’incontro serale al partito. Prendevo il treno delle sette e cinque e alle
otto ero a casa. Se mangiavo in fretta e camminavo ancora più in fretta
riuscivo ad essere puntuale. Passavamo un ora a cazzeggiare bene o male e di
sera riuscivo anche a studiare un po’. Per tutti e cinque gli anni di
università è stato così. Scappavo dalla vita per andare verso la politica. Ora
sto scappando dalla politica per andare verso casa mia. Oggi ho fatto il bravo
impiegato. Ho timbrato il mio cartellino da undicimila euro al mese. Prima o
poi dovrò pensare a come usarli quei soldi. Che per adesso sto ancora
aspettando. Lo so che arriveranno, sono gli unici soldi che sei sicuro che
arrivano. Ma in questi giorni di noia anche aspettare è diventato spiacevole.
In strada
cammino con le mani in tasca e a testa alta. E’ già abbastanza buio e posso
guardare le facce della gente senza paura che loro guardino me. Sto pensando
che stasera potrei masturbarmi. Ne ho voglia e poi avrei già il soggetto giusto
su cui concentrarmi. Ma forse non sarebbe corretto verso di lei. Potrei
scegliere una sua collega. Andrò su internet e cercherò le deputate più belle
del nuovo parlamento. Qualcuna l’ho già intravista in aula, ma non ci ho fatto
più di tanto caso. Non quando c’era Margiotta a sovrastarle.
Mi devo
ancora abituare a Roma. Vederla da turista è sempre stata un’altra cosa. Adesso
devo sopportarla certe volte. La città. Qualcosa che non ho mai vissuto
appieno. Da me il posto più bello per uscire era un bar/sala da ballo, ma era
sempre ipotecato dai fighetti. Quelli come me erano in giro a zonzo. Fino alle
due di notte certe volte, che poi avevi paura a tornare a casa solo nel nulla.
Al primo rumore, i più deboli di cuore, se la facevano sotto. A me è successo
un paio di volte, all’inizio, poi più niente. Per distrarmi pensavo a cosa
avrei fatto da grande. Alle mie decisioni. Quando si vuole fare politica si
sogna, almeno all’inizio. Ma nessuno sogna di essere un normale deputato della
Repubblica. Quello lo fai perché ti capita. E’ un incidente di percorso. Tu
invece vuoi essere De Gasperi, vuoi essere Cavour, vuoi essere l’Obama
italiano,ad alcuni basta anche essere un Blair. Succede a tutti quelli che
iniziano per passione. E’ successo anche a me. A volte mi succede ancora. Cerco
di scacciare il pensiero senza mai cancellarlo del tutto, perché chissà cosa
può succedere mai un giorno. Quando hai tempo per pensare mentre torni a casa
da solo di notte ti fai certi piani in mente degni di Churchill. Lo so io come
potrebbe risolversi questa crisi, basterebbe fare come dico io. E’ solo quando
ci sei dentro che ti accorgi che sognare, nel novanta per cento dei casi, è
sbagliato. Puoi permetterti di sognare se sei Gandhi nell’India degli anni
trenta, o se sei Robespierre nella sala della pallacorda. Ma quando parti dalle
sessioni di consiglio sulle buche delle strade, e arrivi in parlamento a
discutere di Iva e disoccupazione, la prima regola per sopravvivere è non
prenderla mai troppo sul personale. Fregarsene, per quanto possibile. Chi
sussulta alla responsabilità di dover controllare che tutti i moduli di un
ufficio siano compilati a dovere creperebbe dopo un giorno persino nel
consiglio comunale di qualsiasi città sopra i quindicimila abitanti. Se vuoi
andare avanti, se ci credi, devi prima allenarti a non crederci così tanto.
Convincerti che il peso del mondo non è sulle tue spalle, e che la vita va
avanti comunque. La seconda regola varia: per i più cinici è portare a casa
quanto più pane possibile, per i più professionali è ,semplicemente, fare quel
che si può,senza pretendere troppo. E andare a letto certi di aver fatto il
proprio dovere, ma nulla di più. Siamo tutti uomini, tutti con gli stessi
difetti. Salgo le scale di casa e il rumore dei miei passi è tanto forte. Spero
di non disturbare nessuno. A quest’ora la gente mangia, e guarda il
telegiornale. Io so già quello che dirà il telegiornale. Sono queste piccole
soddisfazioni di un inutile potere a darti, a volte, il senso della tua
giornata da onorevole.
Sono seduto
sul divano davanti a un piatto di insalata di riso che non finirò e che sarò
costretto a ingurgitare anche domani. Perché non sono andato a mangiare fuori?
Me lo posso permettere, posso permettermi il meglio. Provo a ripetermi le
parole il più forte possibile, eppure il piatto di riso non scompare. Suona il
campanello che sono già le nove e mezza. Mi alzo in piedi. Aspetto che suoni di
nuovo. Fuori dalla porta Margiotta mi sorride, una mano appoggiata allo stipite
e l’altra sul fianco. Ho sprecato il mio giorno a pensarla, e in un attimo di
distrazione, mi si materializza. Dovrei distrarmi di più. “Mi fai entrare?”
chiede ridendo. “Certo” dico un po’ più forte di quanto avrei voluto. Margiotta
non la riconosco stasera: sarà che me la sogno sempre in tailleur, ma adesso la
vedo con un paio di jeans a vita alta e un cinturone in vita. Una camicia
fucsia a maniche larghe, un pendente di cattivo gusto al collo e dei capelli
che sembrano usciti da una copertina di Cosmopolitan di trent’anni fa. Porta
tacchi talmente alti che è persino più alta di me. “Non ti aspettavo” riesco a
dirle avvicinandomi al divano e sbarazzandomi in fretta del piatto di riso. “Lo
so, scusami, ma volevo chiederti…” ,”Vuoi qualcosa da bere?” le chiedo
interrompendola, forse di proposito. “Ho tè, caffè…ho un succo tropicale e…”,
“Va bene il succo tropicale” risponde a bruciapelo. Apro il frigo e tiro fuori
il succo. Il suo sguardo si fa sospettoso. “Che roba è?”, “è il succo”, “Ma che
marca è?”. Rimango spiazzato, non mi aspettavo una domanda del genere. “L’ho
preso ad un discount ma…” Margiotta non mi lascia finire e prende a ridere.
“Cioè, guadagni in un mese più di quanto un italiano su cinque guadagna in un
anno e compri i succhi ai discount?”. Faccio per rimettere il succo in frigo,
ma lei mette la sua mano sul mio braccio. Si serve da sola un bicchiere di
succo. “A me piace” le dico. “Anche a me” risponde, forse si è accorta di
essere stata troppo dura. Ma subito dopo mi dice che da quando è a Roma si è
girata tutti i migliori ristoranti. Meno male che ho fatto sparire in tempo il
riso. Il paragone sarebbe stato imbarazzante. Margiotta finisce di bere e si
lecca le labbra, poi ,per una frazione di secondo, rimane con la bocca appena
aperta. Mi vuole dire qualcosa. Voglio aiutarla. “Posso chiederti perché sei
qui?”. “Non mi chiedi prima perché sono vestita così?”, “Quella era la seconda
domanda” faccio cercando di stare al gioco. “Stasera c’è una serata anni ottanta
in una disco qui vicino, e io impazzisco per gli ottanta”. Non so se la sua sia
una risposta alla prima o alla seconda domanda. La luce di un lampione fuori
dalla finestra mi dà una scusa per distrarmi. Sposto lo sguardo di lato. “Ti va
di venire?”.
Tira vento.
Il bavero della giacca mi copre appena. Forse è già troppo tardi. A quest’ora
sono abituato ad andare a dormire. Ma lei no. Vuole che la chiami Jessica.
Insiste perché la chiami Jessica. Mi riesce difficile. Non è un nome da donna
di potere. E’ un nome da soubrette. E’ un nome da una che potrebbe amare gli
ottanta a tal punto da vestirsi in modo così ridicolmente retrò per andare ad
una serata a tema. L’unico che sollievo che ho in questo momento è il vento che
mi passa fra i capelli. Posso distinguere la mia e la sua ombra nella luce dei
lampioni sulla strada. Siamo fuori da diversi minuti. Il taxi ci ha lasciato
poco fa, evidentemente ben prima della discoteca. Non so dove siamo diretti.
Sento della musica di tanto in tanto provenire da qualche casa. Universitari in
festa. Studenti fuori sede. Fuori sede come noi, studenti di politica, ma
troppo ben pagati, al contrario loro. Jessica non ci pensa. Si muove per la
strada a ritmo di musica. Deve avere una dannatamente lunga playlist in
quell’iphone. La gente che passa si ferma a guardarla. Le osserva quel culo
scolpito da qualche divinità del sesso. Rimane a bocca aperta. Poi volge il suo
sguardo a me, che le cammino. Ho le mani in tasca. Conto i miei passi e spero
di arrivare presto alla mia meta. Anche se sono dieci anni che non entro in una
discoteca. Jessica si gira a tratti, mi lancia strani segni con le mani, come
di una danza che io non conosco. Quale ultima hit sta ascoltando? I jeans le
sono incredibilmente attillati. Non barcolla sui tacchi: è allenata a portarli.
Ha il sorriso di chi per la serata spera solo in tanta superficialità: tanti
amici visti una volta sola, tanti uomini…ma non riesco a pensarci. Mi concentro
sulla strada. E’ una sera come le altre. Se faremo troppo tardi domani niente
Montecitorio, tanto almeno altri due scrutini ci vorranno prima che si muova
qualcosa. Oggi l’onorevole Margiotta non si è presentata alla riunione del suo
gruppo. Me lo ha detto prima. Aveva di meglio da fare. Su quello non posso
contraddirla. E’ uscita a fare shopping con un’amica. Mi ha detto qualche
parola veloce, fra una danza e l’altra. Vorrei chiederle perché ha scelto me
questa sera, ma non ne avrò mai il coraggio. Entriamo nella discoteca che
saranno le undici. Sotto c’è solo un mucchio di luci blu e tanto buio a intermittenza.
Questo mi tranquillizza. La gente non mi vede. La gente non bada a me. Ci
sediamo ad un tavolo e Jessica s’alza per ordinare da bere. Ho la gola secca,
ma non prendo niente. Tante ragazze, tanto belle, si stanno scatenando di
fronte a me. La musica è di quelle che potrebbe apprezzare un quarantenne.
“Don’t let me be misunderstood” dei Santa Esmeralda. E’ tanto retrò, ma è lo
scopo della serata. Sono tutti vestiti più o meno come Jessica. Alcuni sembrano
venire dritti fuori da un video dei Duran Duran. Affondo un po’ nella mia bella
sedia. Jessica ritorna, poggia il suo drink al tavolo e va a ballare. Mi ha
detto va in disco ogni settimana quando può. Si muove aggraziata. Non me lo
aspettavo. Sa ballare, mio dio. E’ come un quadro di Raffaello in movimento.
Ogni spostamento del piede ha una logica, ogni movimento del collo. Le poche
volte che guarda verso di me ha sempre un ragazzo proprio dietro di lei. Io ho
le gambe accavallate e guardo quel sogno stroboscopico che mi danza davanti e
mi fa capire quanto non mi posso permettere nella mia vita. Non potrei nemmeno
se fossi io il presidente della Repubblica. O forse potrei. A una come Jessica
non dispiacerebbe concedersi ad un potente. Forse lo ha già fatto. Come è
riuscita a prendere quel posto in lista? Cosa faceva prima di diventare
deputata, nonché mia ossessione? Ora balla più vicino a me, scuote il ventre
con tale forza da ipnotizzarmi quasi. Quando la canzone finisce si siede al
tavolo, ingurgita il suo drink in cinque secondi e si rialza. “Tu non balli?”
mi domanda, ma è già lontanissima prima che io possa anche solo pensare ad una
risposta. Ovvia peraltro: non mi piace ballare. E’ la pura verità. Il fatto è
che ora la canzone è cambiata, ed è “La Isla Bonita” di Madonna. E di nuovo lei
prende ad ancheggiare. La mia bocca è aperta. E la luce ad intermittena non mi
impedisce più di osservarla per intero. Ha i capelli vaporosi e cotonati, mi
sembrano anche più chiari. Si muovono da una parte all’altra, formando teneri
boccoli che le ricadono sulle spalle o sugli occhi quando muove la testa
seguendo il ritmo. Posso distinguere le gocce di sudore alla base del suo
collo, il leggero rossore del petto. Il suo seno. Le mani ,dalle dita
affusolate, a volte si toccano qualche boccolo. Ha un anello alla mano destra.
Ha due occhi verdi che, colpiti dalla luce blu, sono diventati radioattivi. Mi
stanno facendo sentire male. Metto una mano sul tavolo. Ho l’altra in mezzo
alle gambe. Faccio respiri costanti. Ho mal di testa e prego dio che questa
canzone non finisca mai, dimenticandomi che io Madonna la odio. Non è l’unica
cosa che mi dimentico. Ancora qualche minuto e potrei dimenticare anche la mia
dignità. La luce adesso non è più solo blu. Rosso e giallo si mescolano. Fa
improvvisamente molto caldo. Guardo l’ora dal cellulare: sono appena le undici
e mezza. Ora mi sto eccitando, ma non lo do a vedere. Per non arrendermi penso
e sfido il mio mal di testa. Faccio finta di scrivere sul tavolo il nome del
mio prossimo presidente della Repubblica. Vorrei scrivere Reglia, ma mi trema
troppo la mano sulla erre. Provo con Paci e mi va meglio. Però Paci è un mezzo
delinquente, o così si dice in mezzo a noi. A lui non pare interessare più di
tanto. Anche a lui piace divertirsi, ma non è più giovane come un tempo. Lui,
negli anni ottanta, stava coi socialisti. Allora ci si divertiva davvero.
Margiotta sarebbe dovuta nascere vent’anni prima. A Milano nell’ottantaquattro
avrebbe fatto furore. Ha un corpo da modella, ha un viso da attrice, parla bene
e ha l’eleganza di una regina. Non credo sia mai stata innamorata. E’
impossibile per un’opera d’arte come lei. Può solo muoversi al ritmo del suo
corpo, affogando se stessa in questo ritmo latin pop, selezionando ogni singolo
uomo che le viene a fianco, contando i tatuaggi per cerca una via d’uscita
dall’inferno che è diventata la sua danza e allungando le sue braccia verso il
vuoto tentando di raggiungere inutilmente la porta del bagno. Quando scaccia
due uomini di fila e guarda di nuovo verso di me, capisco che ha bisogno. Mi
alzo e rischiando di cadere più di una volta mi avvicino a lei, le metto una
mano sul dorso e la conduco verso il bagno. La aspetto fuori. Quando esce
sembra ancora più bella di prima, ma non sorride più. Mi accarezza leggermente
il braccio e si precipita di nuovo a ballare. Ma la canzone è finita. Quelle
che seguono non la fanno più impazzire al punto da star male. Mi appoggio al
muro di fianco alla porta del bagno degli uomini. Resto lì per non so quante
ore. Quando vedo Jessica muoversi e agitarsi e sudare e guardare in alto e poi
spegnersi insieme alla luce lasciando ai miei occhi il buio , penso che ho una
sola speranza: è tanto tardi ormai, e casa mia è molto più vicina del suo
albergo.
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