venerdì 18 ottobre 2013

Settimo scrutinio




Settimo scrutinio:
21 Aprile


Sono mezzo nudo sotto la coperta. Sono sopra il divano. Sono sveglio. Ho appena ricevuto una chiamata importante. Ho parlato a voce bassa per non disturbare Margiotta. Lei è ancora nella stanza. Dorme. E’ tutta la notte che io e lei facciamo le cose al contrario. Quando dormo io lei è sveglia, quando lei dorme io sono qui a pensarla, e non riesco a chiudere gli occhi anche se ho paura che vengano i fantasmi.  Oggi mi hanno dato un altro nome da votare. Cilemi è un classico nome di compromesso. Sperano di raccattare voti di qua e di là. Non so se ce la faranno. In fondo 504 sono proprio pochi. Ma i franchi tiratori sono proprio tanti. Non si sa se questo sia un nome per un governo di emergenza nazionale, o solo per calmare gli animi e tentare chissà cosa dopo a mente più fredda. Mi siedo sul divano e chiudo finalmente gli occhi. Non so cosa ci fosse nel bicchiere di Margiotta ieri sera, ma le ha fatto male. Ha vomitato per buona parte della notte. Le ho lasciato mettere uno dei miei pigiami. Avevo intenzione di cacciarla di casa, ma non sono riuscito a farlo. E ora che l’ho ospitata nella mia casa, sento che lei si sta approfittando di me. O sono io ad approfittarmi di lei. Fortuna che ho i vestiti di ieri mattina ancora sulla sedia in salotto. Non dovrò entrare in camera a disturbarla. Mi do una sciacquata veloce al rubinetto del lavandino. Mi vesto. C’è uno specchio sul muro di fronte al tavolo in sala. Mi ci metto davanti e guardo. Ho i capelli fuori posto, ma niente di grave. Ho un brutto sguardo, una brutta cera, ma per questo sarei giustificato anche dal solo fatto di dover votare Cilemi oggi. Mi passo una mano sulla fronte. Quanti anni ho? Mi sento particolarmente bello oggi. Margiotta invece no: esce dalla stanza con indosso una camicia delle mie, senza pantaloni e a piedi nudi. Ha la faccia di chi ha appena visto la morte. I capelli scompigliati. Mi viene vicino e ,ignorandomi, si attacca praticamente allo specchio. Poi mi saluta. E sorride. E ringrazia. E dice qualcos’altro che io non colgo, perché sono troppo impegnato a guardarle il culo. E sorrido nel vederle un po’ di cellulite. Lei lo capisce, forse, perché mi guarda male, serra gli occhi. Ha una mano che le trema. Le chiedo se va tutto a posto. Scuote la testa. “Che è successo?” faccio io. “Niente” sentenzia e scappa in bagno. Io inizio a preparare la colazione. Quando ritorna in cucina è vestita allo stesso modo, ma ha il volto più disteso. Si ferma in piedi davanti alla sedia e mi fissa. Ora ho paura. Davvero. “Saresti potuto venire in camera ieri sera…” mi sussurra. “Ma non l’ho fatto” le rispondo. Lei invece mi avrebbe lasciato fare. Deve essere abituata a lasciar entrare gli uomini in camera. Non so se lo faccia per voglia o per uno strano senso del dovere. “Voglio che tu mi dica una cosa” faccio e le porgo una tazza di tè. Annuisce e lo prendo come un invito a continuare. “Perché fai politica, Jessica?”. Si compiace del mio chiamarla per nome. “Mi piace” risponde, ma sa che io voglio di più. “Devi andare al lavoro” dice poi. “E tu no?”, “Non mi è arrivato alcun messaggio, quindi vuol dire che il vostro nuovo candidato non lo devo votare…ho controllato le notizie sul cellulare, sono informata anche io…”. Il sorriso con cui spezza la conversazione mi fa venire voglia di urlarle addosso, di prenderla per il collo e urlarle cose tanto brutte e poi ordinarle qualcosa che lei non farebbe e poi precipitarle ai piedi e dichiararle amore eterno ma solo nei miei sogni. Non nella realtà. Perché in realtà ho paura di lei. Mi allontano e raccolgo le mie cose: portafoglio, telefono e giacca. Cosa devo fare con lei? Apro la porta, mi giro per guardarla e lei mi augura un buon giorno. “Ti aspetto qua” aggiunge. Ma ha tutta l’aria di essere una bugia. Potrei chiuderla dentro per assicurarmi che non vada via, ma mi sentirei troppo uno stronzo. Preferisco che ad essere stronza sia lei. Non mi vuole parlare di sé. Ma sta ferma in casa mia. Chiudo la porta e già me la immagino diversa, e ritorna ad essere perfetta. Come questa giornata. Arrivare a Montecitorio a piedi ha i suoi vantaggi. Molti prendono il taxi ma perdono così una strana sensazione: quella di vedere il potere respirare. Avvicinarsi al palazzo come uno qualsiasi fa sembrare tutto più umano. Fa sembrare un voto per la presidenza della Repubblica una cosa quotidiana. In faccia a chi dice che siamo una casta e che siamo fuori dalla realtà. Bastano quattro passi a Roma di buon mattino e te ne puoi sbattere. Quando poi entri e trovi i tuoi colleghi stanchi e assonnati tutto torna al suo posto. Oggi il segretario non fa altro che lamentarsi del suo mal di testa. Ti spiega che ha chiesto al dottore ma quello gli ha dato solo delle pillole e poche risposte. Chiede aiuto ai nostri colleghi medici. Ce ne sono parecchi. Ognuno gli dà un parere diverso. E’ un rompicapo da cui non si esce. Gli passo affianco con un cenno della testa che lui non coglie. Entro in aula e prendo posto. Poggio il cellulare sullo scranno. Il mio vicino di banco sta fissando il suo nuovo record personale a fruit ninja. Qualcun altro è di buon umore e fischietta oppure legge la gazzetta dello sport. Per un momento mi accorgo che attorno a me, negli scranni vicini, ci sono solo uomini. Pare sia destino che le donne siano divise da me. Tranne una. Che ora è assente. Il suo posto è la fondo, là sopra. Ci sono le sue amiche che cinguettano fra loro. Al prossimo interlocutore si insulteranno a vicenda,ma sempre col sorriso sulla bocca. Le più anziane ,fra di loro, hanno l’aria di chi , un tempo, è stata puttana ma ora non se lo può più permettere, e ne soffre tanto. Da noi le donne sono più dimesse, anonime, piatte, noiose, preparate, intelligenti, anche carine ma avrebbero bisogno di un po’ di trucco in più e si vestono male. Tanto male a volte. A volte puzziamo proprio di vecchio apparato. Forse non vinceremo mai. Anche quando tutti gli altri perderanno. Ma questo oggi non importa. Oggi importa votare. Quando inizia la chiama partiamo disordinati e con molti assenti. Pian piano i voti arrivano. Uscendo dalla cabina di voto guardo la presidenza. Un mucchio di gente che avrebbe molto di meglio da fare che stare qui e ripetere le stesse cose più e più volte, ad applicare un regolamento di cui non sanno i perché, a pensare a quanto sia alienante e poco gratificante decidere del destino di una nazione, e a quanto sia molto più produttivo masturbarsi nel bagno della camera dei deputati pensando all’onorevole Margiotta che mi sta aspettando a casa.  Anche se la sua, questa mattina, è stata solo una bugia.

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