18 Aprile
Sono un uomo
fortunato. Anche se lavoro a Roma da un mese ho già una casa. E’ stato un colpo
di fortuna. Un mio amico, o meglio, un
tizio del mio paese che veniva con me alle medie, si è laureato proprio un mese
e mezzo fa. Mi ha lasciato il suo buco. E’ una soluzione temporanea, lo so. Ma
la preferisco all’albergo. Mi sento più protetto. Posso girare in mutande per
casa senza preoccuparmi che debba venire qualcuno a rassettare il letto. Posso
fare quel che voglio. Non ho ancora disfatto le valigie, anche perché nel primo
weekend libero tornerò di filato a casa. Mi manca casa. Mi manca mia madre che
mi stira i vestiti. Sono in un brutto momento. Un movimento inconsulto alla
trattoria mi ha fatto sporcare i pantaloni di carbonara. Ora devo scegliere
come cambiarmi. Ho tanta voglia di mettermi in jeans. Sono imbarazzato, poi
però penso che stamattina ho visto tanti colleghi in jeans, quindi deve essere
una cosa normale, mi dico. Alla fine li metto. Entro in transatlantico alle tre
e un quarto. La seduta non è ancora ripresa. Faccio un salto alla buvette. Mi
piace. C’è lusso, ma non è sfrontato. La prima volta che ci sono entrato ho pensato:
qui hanno passeggiato e preso il caffè Benedetto Croce, Togliatti, Moro, De
Gasperi, Nenni e tutta la compagnia. Poi il pensiero mi è andato dritto verso
gli altri: quelli che non ricorda nessuno. Ci sarà pure stato in assemblea
costituente un deputato di cui non si ricorda nessuno. I loro nomi: Assennato,
Bibolotti, Gotelli, Meda, Fogagnolo. Mi chiedo se loro si rendessero conto di
quel che stavano facendo. Di quello che noi ora pensiamo loro abbiano fatto.
Magari per loro era come per me, votare per chi ti dicono senza questioni.
Oppure erano diversi: era gente che sapeva, che voleva fare l’Italia. Prendo un
caffè. Vicino a me stanno discutendo animatamente un collega e un tipo della
parte opposta. Parlano di nomi. Di alleanze. Si chiedono tanti perché e non
concludono nulla. Tiro fuori dalla tasca un pugno di monetine. Mi metto a
contarle, ma qualcuno la pensa diversamente. “Allora ha finito?” mi punge
fastidiosamente una voce alle mie spalle. Mi volto. Non mi ero accorto che
dietro di me c’era Margiotta. Ha le braccia conserte e la borsa in spalla. Mi
fa un sorriso un po’ stronzetto e mi ripete la domanda “Ha finito?”. Io
annuisco , lascio le monete sul bancone e mi faccio da parte. Lei ordina una
spremuta d’arancia. Non mi degna nemmeno di uno sguardo. Sta parlando di un
concerto degli U2 a cui è andata. Dice che è stato bellissimo. Non la smette
più di parlare. Mi allontano di qualche passo. Ho la tazzina in mano ma non
bevo il caffè. La guardo. Potrebbe ricordare un’eroina dei cartoni. Ma ha la faccia
troppo stronza. Una faccia di quelle che quando chiedevi alla tua amica “ma
cosa pensi di quella?” lei ti guardava con fare saccente e rispondeva “troia” e
tu ci rimanevi male. Perché sapevi che in fondo la tua amica aveva ragione. Non
vorrei azzardarmi a dire che Margiotta è una troia. L’area di gravitazione
politica me lo suggerirebbe ma non voglio equivoci. Non la conosco. Non la
posso giudicare. Però posso dire che ha i capelli castani chiari e credo si faccia
i colpi di sole. Ha un colorito rosa pallido e gli occhi ,credo, castani. E’
truccata alla perfezione. Ha un bel fisico. Posso intuire una terza di seno, ma
secondo me ha il reggiseno imbottito. Io sono anni che squadro le ragazze come
Margiotta. E’ una fastidiosa abitudine. Come lei erano le ragazze che tu non
potevi avere mai. Perché tu eri un tipo tranquillo. Come lei erano le ragazze
che ti divertivi a sognare per poi accorgerti soltanto che in realtà non le
volevi. Volevi solo immaginarle, plasmarle per i tuoi ideali. Magari una volta ci
parlavi con ragazze così. A una festa dove eri capitato per caso. Al concerto
scolastico. Magari le chiedevi una cosa che ti dimenticavi dopo cinque secondi.
Lei ,se andava bene, ti rispondeva educata. Altrimenti non ti calcolava
proprio. Mi avvio per rientrare in aula. Poco dietro di me c’è Margiotta.
Camminiamo allo stesso ritmo. In aula la chiama è già partita. Dondolando come
un cretino faccio la mia entrata in aula. Non mi caga nessuno, ma almeno ci ho
provato. Sorrido a chi conosco. Faccio un paio di conoscenze rapide, due del
mio partito che il mio vicino di seggio mi presenta e poi mi dice “parlate un
po’ insieme” e scappa via. Passano tre minuti e sono nel mezzo, la schiena
rivolta alla presidenza. Parlo. Guardo Margiotta. E’ in piedi insieme all’amica.
Su una delle file più alte. Da lontano è più bella. Il mio interlocutore mi
riporta alla realtà dopo qualche istante. “Allora anche oggi ci divertiamo”
dice un po’ deluso. Questo stallo dura da un giorno solo ,ma gli esperti dicono
che stavolta sarà durissima. Si andrà oltre la quinta chiama. Il problema è che
non ci sono nemmeno i candidati di bandiera, quelli da bruciare per vedere
quanto sei compatto in aula e quanti sono i franchi tiratori. Nulla di nulla.
Siamo al “liberi tutti”. Stamattina, mi han detto(perché io allo spoglio non
c’ero) che sono usciti, oltre al mio Dante, i classici Napoleone e Giulio
Cesare, due Homer Simpson, Cicciolina, Marilyn Monroe e Moira Orfei. Il
cazzeggio parlamentare non ha confini. Mi chiedo chi uscirà oggi, tra la marea
di schede bianche. In aula c’è poca gente. Molti non si faranno vivi. Margiotta
c’è. Ha la faccia un po’ scazzata, ma sé qui significa che voterà. E’ la prima
volta per tutti. Se non è per responsabilità è per curiosità che ci facciamo
sempre trovare all’appello. Cammino avanti e indietro, dopo essermi liberato
dalla conversazione. Non ho voglia di parlare di politica. Anche perché non c’è
molto di cui parlare. Tutti contro tutti. Tutti con tutti. Non posso dire di
essere deluso. Me lo aspettavo. E mi avevano avvisato. “Sarà un carnaio quello
dove ti vai a infilare”. Ho accettato la sfida e adesso sono qui. Non faccio
molto. Tento di farmi scivolare addosso ogni cosa. E’ tutto lavoro per il
futuro. Quando conterò, se mi faranno contare, magari proverò a cambiare
qualche cosa. Nel partito di Margiotta è più facile ,specie se sei bella come
lei, andare avanti. Dopo una buona tornata elettorale ti può capitare di
diventare ministro. E’ un’innovativa idea di ricambio generazionale. Per il
resto, pochi contano. Pochi pensano. Ma qui da noi siamo messi poco meglio.
Possiamo vantarci almeno un po’, solo perché ci sono loro. Mentre la chiama va
avanti, e sono già arrivati alla effe, Margiotta prende in mano l’iphone e si
mette a smanettare. Vado verso il mio scranno, lanciandole occhiate furtive.
Sta per uscire. Mi viene una voglia matta di seguirla. Sta uscendo per
telefonare. Oggi c’è poca gente ma a quanto pare fanno una montagna di casino.
Farò finta di andare in bagno e la seguirò. Lo facevo sempre con le belle
ragazze a scuola. Non mi scoprivano mai. E io scoprivo quasi tutto di loro. Ora
ci riprovo. Inizio a muovermi. Ho le mani in tasca. Con un minimo di attenzione
mi si scoprirebbe. Ma lei è distratta e al telefono. Ecco, sta per uscire
adesso. Ma si ferma. E io sono proprio dietro di lei. Fermo. Mi passo una mano
fra i capelli. Lei si gira. Torno indietro. Più veloce che posso. Guardo il
tabellone. Manca ancora troppo. Quando mi chiamano, cazzo? Ormai sono in
trappola. Perché si è fermata? Non è razionale? Stava uscendo, stava uscendo.
Mi volto ancora. E lei, con la faccia di chi ha appena visto un maniaco, oppure
di chi vuole chiederti “ma perché cazzo ce l’hai con me?”, guarda verso di me.
E’ un disastro. Che vergogna. Margiotta continua a guardarmi. Ora ne sono
sicuro, mi fissa negli occhi. Uno, cinque, dieci secondi. Poi riprende il
telefono e fa un’altra chiamata. Ora devo andare in bagno per davvero, ma esco
da un’altra porta. Dopo due minuti sono di nuovo in aula. Margiotta non c’è
più. Oggi non parteciperà al voto. Tanto non serve a nulla. Io ,nella speranza
che nel frattempo i dirigenti del mio partito troveranno un accordo di massima
su un candidato, resto qui. Ancora qualche minuto e poi toccherà a me.
“Marchini” mi chiama il segretario d’aula. Dentro la cabina, per un secondo, ho
un sussulto. Non sono qui per fare pagliacciate. Sono stato votato. Quindi
,visto che non posso decidere nulla, almeno scriverò un bel nome. C’è un
vecchio deputato del mio partito, si chiama Reglia, che ho conosciuto il primo
giorno di parlamento. E’ una persona seria. Umile. Mi parla sempre con
educazione e mi spiega come stanno le cose. Mi spiega di quella volta che ha
fatto il sottosegretario al lavoro ed è riuscito a risolvere un paio di
situazioni intricate. Mi parla degli anni in cui andava porta a porta a fare
propaganda per il partito. Non è giovane, ma il capo dello stato non serve sia
giovane. Scrivo il suo nome sul foglio. Forse capirà che sono stato io. Esco
dalla cabina. Mi sento soddisfatto. Ho votato una persona buona. Non perderò
tempo ad aspettare lo scrutinio. Voglio tornare a casa. Potrei prendere il
treno a partire subito, ma domani gli scrutini continuano, anche se è il
weekend. E’ una situazione particolare, bisogna proseguire a oltranza. Le
trattative si susseguono. In fondo non mi dispiace rimanere a Roma. Ma rimarrò
a casa mia. Davanti alla tv. Prenderò qualcosa da mangiare, anche solo un
panino, e mi butterò sul divano. Non
vedo l’ora.
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