19 Aprile
Stamattina,
insieme al sole fuori dalla finestra, ho trovato ad accogliermi uno strano
senso di inutilità. E’ capitato anche altre volte. Oggi è più forte però. Ho
fatto un giro su internet prima di vestirmi. Ho cercato sui giornali la cifra
di quanto guadagno. Lo so già, ma volevo sapere anche che ne pensano gli altri.
Cosa dicono gli altri. Di me. Di noi. Fanno undicimila euro al mese, netti,
senza contare i benefit. Ogni mese ne do via quattromila al mio partito. Lo
devo fare. E’ d’obbligo. Sono contento di star bene. Posso dare qualche soldo
ai miei, che ne hanno bisogno. Posso togliermi qualche sfizio. Posso desiderare
qualcosa ed averla. Sarà troppo dire che desidero Margiotta? Ci ho pensato
tutta la notte. Vorrei tanto conoscerla. E se volessi esser cattivo direi che
potrei anche comprarmela. Ha l’aria di una che si lascia comprare. Chissà cosa
ha fatto per essere messa in quella lista? Sto pensando male. Me ne vergogno.
Stamattina, una volta vestito, sono uscito e ho fatto colazione in un bar. Poi
sono arrivato qui, di nuovo. E’ passato poco più di un mese dalle elezioni. E
io mi sento già inutile. E’ grave, ma non così tanto come io credo. Mi dicono
tanti colleghi che per loro è stato lo stesso e, col tempo, hanno imparato ad
accontentarsi. Mi dicono che devo cercare di godermi la vita. Andare in
vacanza, sposarmi, fare dei bambini, comprare una bella casa ed arredarla come
voglio io. Mi dicono che non ci sono tanti in giro così fortunati da potersi
permettere queste cose, e chi può deve approfittarne, non rovinarsi la vita con
problemi inutili. “E’ proprio vero, c’è sempre qualcosa per cui piangere”
ripetono altri a mo’ di scherzo. Io non piango. Ma non mi sento bene. Oggi
qualcosa si muove. Ieri c’è stata una riunione fra alcuni deputati, miei
colleghi, e hanno deciso, in attesa che i gerontocrati del partito facciano una
scelta, di votare per un candidato forte, dall’alto profilo istituzionale. Io
non c’ero a quella riunione, ma sono d’accordo con loro. Farò come loro. In
tutto faranno cinquanta o sessanta voti. Non è tanto, ma non è nemmeno poco, è
se non altro un modo per dare un segnale. Non è stata la decisione di un
partito, ma di una corrente. Io non ho nessuna corrente in cui stare. E mentre
ci penso vedo Margiotta che mi passa davanti diretta alla buvette. Puzza di
fumo. E oggi è vestita di nero. C’è un modo per immaginarla che mi lascia
sconvolto. Mi vengono i brividi. Ha preso anche un cornetto, insieme al caffè.
Fosse nuda. Provo a immaginarla. Sto tornando indietro di dieci anni. Senza la
sua giacca, senza la gonna. Stesa su un letto che non potrebbe mai essere il
mio. Al massimo potrei pagare per guardare. Ho passato gli ultimi vent’anni
della mia vita a guardare. E sono arrivato fin qui. Mi chiedo se questi altri
che mi circondano si sentano importanti. Oppure prenda anche a loro la stessa
noia che prende ad un impiegato delle poste ogni mattina. E’ questo che siamo
forse, impiegati di lusso. Tanto lusso, certamente. Impiegati. Come ogni altro.
La differenza è solo nello stipendio. E nelle gambe di Margiotta ,perché alle
poste se la sognano un’impiegata così. Noi invece ce l’abbiamo, e ce la teniamo
stretta. Spero. Siamo ancora tutti vivi. Il popolo ci odia. Ma il popolo odia
anche gli impiegati delle poste. Perché sono assenteisti. Perché fanno il loro
lavoro con indolenza. Perché fanno il minimo indispensabile e non di più. Gli
stessi motivi per cui odiano noi. Gli stessi motivi per cui mi sento inutile.
Potrei alzare la mano durante la prossima riunione di gruppo,ma non lo farò. Potrei
dare un’intervista e proporre io un candidato, ma non lo farò. Potrei, alle
prossime elezioni, votare per un partito diverso da quello per cui verso la
quota d’iscrizione. L’ho già fatto altre volte, ma non lo dirò mai a nessuno.
Sono sicuro invece che Margiotta non l’abbia mai fatto. Mentre camminiamo
fianco a fianco e ci ignoriamo, e io guardo lei, e lei parla al telefono, penso
che per lei non debba essere una fatica votare il suo partito. Sono io che mi
faccio troppi problemi. Mi chiedo troppi perché. Ad esempio mi chiedo come
faccia ad avere delle gambe così belle. Liscie, lunghe, perfette. Con i piedi
infilati in quei tacchi. Alzo lo sguardo. Sono dentro l’aula. Margiotta è al
mio fianco. “Tutto a posto?” mi chiede. Forse perché sono con gli occhi bassi e
la bocca aperta da cinque minuti. “Si” rispondo io dopo qualche secondo, e poi
dico qualcosa senza volerlo, senza essermi riuscito a controllare. “Perché?”.
Lei mi guarda più attentamente. Sa chi sono. Sa che la guardo da ieri. Sorride
appena e scuote la testa “Aveva un’aria strana”. Ma che tono gentile, non me lo
sarei mai aspettato. Non da lei. “Posso darti del tu?”. Questa mi prende come
un pugno allo stomaco. Annuisco e volgo lo sguardo a lei. Sono suo. Potrebbe
farmi fare quel che vuole. “E’ la prima volta per tutti e due, credo” dico. E
lei mi risponde di si. “Posso chiederti da dove vieni?”, “Certo” fa lei “sono
nata in un paese vicino Lecco, ma vivo da sempre a Milano…sono stata eletta in
Puglia”. E chi cazzo se ne frega, penso io, ti ho chiesto di dove sei non dove
ti hanno parcheggiata in lista elettorale. Devo evitare di pensare male di lei.
In fondo è gentile. Cerco di ritardare le domande importanti, raccontandole da
dove vengo e dove sono stato eletto. “Comunque, sono Francesco” concludo
allungando la mano destra. Parlare dei luoghi di provenienza e poi presentarsi
era il modo migliore per fare conoscenze all’università. Chissà se funziona
ancora. Mi stringe la mano, e si lascia guardare meglio. “Jessica, piacere”. “Siamo vicini in ordine
di chiama” dico a bruciapelo, lei fa una faccia stupita solo a metà. Si aspetta
che io le racconti che l’ho vista entrare in cabina proprio dopo di me.
L’accontento. Con le mie parole si spenge anche il suo sorriso. Ho la certezza
che non mi dia troppa importanza, ma credo sia incuriosita. Siamo due persone
diverse. Tanto diverse. Forse le piace la mia camicia, la mia cravatta. Oppure
il deodorante. Ci salutiamo dopo pochi secondi. Andiamo verso parti diverse
dell’emiciclo. Lei si volta per guardare dove mi siedo. Faccio la stessa cosa
io. Ora siamo avversari dichiarati. Ora anche lei sa per certo che io considero
chi l’ha voluta in lista un delinquente. O forse no. E io so che chi mi ha
voluto in lista con quel delinquente ci vuole trattare. Fanno bene, perché vale
sempre la pena di trattare. Non so se faccia bene io ad ascoltare quel che
dicono senza mai rispondere. Passano ancora pochi minuti di pensieri, poi
inizia la chiama. Ancora una volta tanti assenti. Quando “Macherio” compare sul
tabellone mi alzo e mi preparo. Margiotta, o Jessica, è già lì. Ci salutiamo
con un cenno. Cerco di darmi un tono, con un bel faccione grave e consapevole
dell’importanza del momento per il bene del paese. Lei ci casca e pensa che io
sia uno che di politica se ne intende. “Secondo te quanto ci vorrà per
eleggerlo?” mi chiede. E’ preoccupata che le vada via troppo tempo, forse.
Decido di fare lo stronzo, tanto io, con questa, non ci parlo più. “Chissà,
dipende da voi” le faccio, e spero che lei sia informata dello stallo nelle
trattative. “Dipende anche da voi” dice ridendo. Non ha accusato il colpo.
Pazienza, almeno ci ho provato. “Marchini” mi chiamano, e io obbedisco. “Ciao
Jessica” le dico, e lei alza la mano, subito dopo entra nella cabina a fianco
alla mia. Quando esco lei è già lontana. Avrà fatto di nuovo scheda bianca. Io
riprendo posto al mio seggio, faccio una chiamata a casa, penso a cosa mangerò.
Lo scrutinio mi porta un po’ di allegria. Il candidato che ho votato ha preso
diverse decine di voti in più del previsto. Non è molto, ma almeno è un piccolo
segno, che rimarrà stampato nei resoconti stenografici di questa seduta ad
imperitura memoria per coloro che un giorno vorranno consolarsi nel pensare che
qualcuno ,dentro al parlamento, che prende le cose sul serio ancora c’è.
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