Diciannovesimo
scrutinio:
28 Aprile
Stamattina
c’è un’aria stantia. Non è il solito parlamento brulicante di chiacchiere e
conciliaboli. Sembra di essere tornati di colpo indietro nel tempo. Se queste
facce che vedo attorno a me fossero in bianco e nero, probabilmente non noterei
la differenza. Stamattina, quando tutto è ormai deciso, quest’aula sembra un
pezzo d’antiquariato. Come una bambola di porcellana, come un carillon, come
una sedia a dondolo tarmata intravista dalla vetrina di un robivecchi con la
testa sempre a china a leggere il giornale, il Corriere della Sera, o il Resto
del Carlino coi loro bei servizi sull’Italia del primo novecento. Ai miei
colleghi mancano i baffoni bianchi e poi potrebbero essere benissimo
trasportati all’inizio del secolo scorso. Fino a ieri mi sembrava di vivere
nell’elettronica. Oggi ,mentre la voce della segretaria d’aula continua a
elencare i nomi della chiama, mi sembra di udire in lontananza il suono di un
pianoforte. Un vecchio pianoforte. Oggi potrebbe anche essere il mio ultimo
giorno. Ho già votato e ho mentito ancora una volta: alla fine ho scritto
“Travai” e ho deglutito con fatica. Poi il groppo in gola è svanito. Dopo di me
è entrata in cabina Margiotta e mi ha salutato. Velocemente. Ora che i secondi
passano lenti lei non c’è più. E’ fuori dall’aula, a parlare con chissà chi. Io
sono qui dentro, mentre fuori piove. Come ieri. Eppure fa caldo, dicono. E’
l’estate che arriva. Ho il cellulare spento. Forse mia madre è preoccupata per
me. Ho un foglio di carta bianco davanti agli occhi. Ho una matita spuntata
poggiata sul foglio. E’ tutto immobile. Comincia lo scrutinio che l’aula è
mezza vuota. Margiotta rientra. Aveva ragione: sta invecchiando. L’ho vista
camminare a fatica, ho visto uno sguardo un po’ troppo velato per essere
giovane. Avrei voluto disegnarla, ma oggi la mia mano è stanca e preferisce
sorreggere il mio mento. Ascolto una lunga fila di “Travai” uscire dalla bocca
del presidente. Sono come dita che spingono sempre sugli stessi tasti di un
piano. Dello stesso vecchio piano che accompagna la nostra seduta odierna.
Un’altra parte della storia d’Italia è finita. Potranno essere aggiornate le
statistiche, le pagine su Wikipedia. Il tempo potrà andare avanti ancora. Come
va sempre avanti, nonostante possa essere tutto diverso. Suonala ancora ,presidente.
Vai avanti con questo Travai. Gli giureremo eterna fedeltà. I voti dispersi
sono pochi: c’è ancora qualche Reglia, qualche Piovani, qualche Ciocca. C’è
anche un Marchini. E’ stato un attimo in cui ho sentito il mio nome essere
pronunciato. Non ci ho fatto caso subito. Poi, mentre la lista proseguiva con
nomi diversi, ho girato la testa. L’onorevole Margiotta era girata verso di me,
mi ha fatto il segno della vittoria con la mano e mi ha sorriso. Mio dio che
bello quel sorriso. Potrei morire per vederlo ancora una volta. Quando ha
continuato a fissarmi ,senza più sorridere, ho capito. E’ stata lei a votarmi.
L’ho salutata in risposta. In fondo glielo devo. Mi ha regalato un pezzo di
storia. Non è questo che ho sempre voluto da quando ho iniziato a fare
politica? Sono un uomo fortunato. Qualcuno mi avrebbe voluto presidente della
Repubblica. Quando il quorum è raggiunto l’aula scoppia in un applauso
fragoroso per l’elezione di Travai. Mi alzo in piedi e applaudo. Ma penso a
come sarebbe stato essere eletto. Oddio, non ho cinquant’anni e non avrei
potuto farlo, ma al diavolo la legge, almeno un secondo posso immaginare. Se
Margiotta si fida di uno come me, forse c’è speranza per il mondo. Noi politici
invece siamo fottuti, perché vuol dire che non c’è più religione, che il buon
vecchio Andreotti aveva torto, che a volte si sta meglio da impiegati che da
direttori. Perché gli impiegato, rintanati al fondo del loro piccolo ufficio,
possono sussurrarsi quello che davvero pensano sia la cosa migliore. E questo
Travai non potrà mai farlo, ora che è diventato presidente della Repubblica.
Quando la seduta finisce mi ricordano che la riunione del gruppo è stata
anticipata all’ora di pranzo. Non avrò nemmeno il tempo per il mio panino, ma
con tutta probabilità durerà poco. Qualche minuto e poi tutti via. Oggi
possiamo fare finta di essere uniti. Per la guerra c’è ne è di tempo. Anche la
riunione di Margiotta è stata anticipata. Ma nei corridoi del transatlantico la
vedo sfrecciare via, troppo veloce anche per me, verso l’uscita. S’è girata un
paio di volte per guardare e mi ha fatto uno sguardo che implorava
comprensione: oggi ha tradito due volte, non ha votato Travai e non si
presenterà alla riunione. Ma che cosa lo guadagna a fare lo stipendio? Oddio,
questa domanda non bisognerebbe farla solo a lei. Sto entrando nella sala, c’è
già qualche collega ad aspettare. Hanno facce serene, ma vecchie. Tanto
vecchie. Anche i trentenni. Sento quasi puzza di chiuso, come entrare nella
stanza da letto dei bisnonni che non veniva aperta da quarant’anni. Mi vibra il
cellulare. E’ arrivato un messaggio che recita: “Buona fortuna. Jessica”.
Spengo il telefono. Buona fortuna. E’ un bell’augurio per uno come me. E’
passato qualche minuto e la sala è piena. Il vice segretario, o quello che era
il vice segretario, ha già iniziato il suo discorso. Sto pensando che potrei
anche alzare la mano e chiedere la parola. Non mi sono iscritto a parlare, ma
qui non dovrebbe fare più di tanta differenza. Ma cosa potrei dire? Potrei
guardarli negli occhi, oppure potrei tenerli. Scelgo la seconda. Sapete che vi
dico? Io oggi parlo, Gullotta si dispiacerà per me, diranno che non so stare al
mio posto, ma pazienza. Buona fortuna. C’è una cosa che vorrei dire tanto, che
sicuramente non sapete. Io, proprio io, sono vent’anni che faccio politica.
Iniziai alle elementari, quando fui eletto capoclasse. Sembra strano, vero? Uno
zitto e buono come me. Ma non è finita lì: rappresentante di classe alle medie,
rappresentante di classe per i primi tre anni di liceo, e poi due anni da
rappresentante d’istituto. La storia recente la sapete: consigliere comunale e,
nel frattempo, uno dei coordinatori provinciali del partito. Ora deputato. E
dire che io non so parlare, non l’ho mai saputo fare. Mi sono sempre vergognato
come un matto. Però ho vinto spesso, perché io, che non so parlare, sono sempre
piaciuto al potere. La mia unica arma: io ero quello che i professori
ascoltavano, perché ero bravo ed educato, ero quello che sapeva fare la faccia
giusta e sapere come mettere le cose in una certa maniera. E questo serve. E’
sempre servito andare d’accordo col potere. E a me il potere mi ama, mi ha
sempre amato. Il timido ma educato, quello nella norma, ma diligente.
Arrivavano i miei amici e mi dicevano che potevo farcela, perché io era l’unico
che poteva parlare coi potenti, era l’unico a cui i potenti portavano rispetto.
All’inizio non ci credevo, poi ,da grande, ho cambiato idea. Ora voi, che siete
stati eletti magari perché sapete parlare alle piazze, o perché vi sapete
mettere in mostra dentro il partito, non potrete mai capire quanto è bello
essere amati dal potere. E’ una sensazione soffice ,come una coperta calda. La
differenza fra me e voi è che mentre voi promettevate a voce alta il
cambiamento, davanti ad un popolo di cinquantenni che sotto sotto ai
benefattori al governo ancora ci credeva, io non parlavo. Io stavo zitto, e
poi, quando me lo chiedevano, se me lo chiedevano, rispondevo che sarei andato
a parlare con chi di dovere e avrei fatto il possibile per risolvere il
problema. Nella maggior parte dei casi ci sono riuscito e la gente ha iniziato
a votarmi sempre più. Io non ho mai promesso il cambiamento, perché so bene che
il cambiamento non deve partire da me. Io faccio quello che posso. E ora mi
chiedo: che posso fare? Posso votare insieme a voi, oppure posso tradire. Ma
alla fine c’è una differenza fra le due cose? Se volete la mia opinione, non me
ne frega proprio un cazzo. L’unica cosa che importa è farsi amare dal potere. E
io so come si fa. Dura ancora adesso: mi ronza intorno, mi cerca, mi desidera,
mi chiede di restare più a lungo la sera, mi chiede di ascoltare il mio cuore.
Ancora oggi il potere mi ama, perché io sono l’unico in grado di rilassare il
sorriso dopo l’ansia quotidiana. Io sono un uomo di pace. Le persone che ti
amano ti sanno anche ascoltare, e io qualche volta parlo, per doppi sensi e
sempre sottovoce, ma parlo, ed oggi ho scoperto che il potere mi ha ascoltato,
ha capito quello che volevo da lui. O da lei, perché il potere spesso è femmina.
Più di quanto possiate credere. Io ho cambiato il cuore al potere, forse non
sono riuscito a portarlo alla santità. Ma un potere santo non è più un potere.
E allora ho capito dove sbagliamo. A tutti noi piace il potere, ma ci ostiniamo
a far finta di sputargli addosso. A qualcuno piace, d’accordo, e forse porta il
voto di qualche gentile pensionato ex partigiano. Ma è così bello il potere,
non si può tradirlo con queste bugie. Ho sentito che ci sarà da cambiare
segretario. Ho pensato che uno giovane come me potrebbe candidarsi. E voi, che
potreste scegliere Bucci o qualche relitto imposto dal comitato di saggi qui
davanti a me, potreste anche scegliere me. Perché? Perché vi prometto che io
dal potere mi faccio amare. E ascoltare. Potrò scendere in strada a convincere
una persona. Ogni persona convinta ci avvicinerà al letto del potere. Voi,
nella vostra carriera, quante persone avete convinto che non fossero già delle
vostre idee? Credo ben poche. Io oggi l’ho fatto. Ho dovuto distruggere un muro
di diamante, e scorticare un armatura luccicante da un corpo marcio di difetti.
Ma sono arrivato al cuore del potere, e lei mi ha sorriso e mi ha detto “Hai
vinto”. Io ho vinto, sapete? Domani mi sveglierò con un nuovo inquilino al
Quirinale e tutto comincerà come al solito. Noi non possiamo cambiare la
storia, perché il sole sorge sempre da destra, che lo vogliamo o no. Possiamo
però convincere la gente. Possiamo accarezzare il potere. Possiamo parlare,
possiamo rompere il muro. Possiamo intascarci gli undicimila euro al mese più
immeritati del mondo, ma col sorriso, perché quel giorno avremo stretto la mano
a una persona e quella avrà riconosciuto che sì, abbiamo ragione, e il giorno
dopo ci dirà che abbiamo vinto. Ascoltatemi ,vi prego, perché sono vent’anni che
faccio politica e so che la politica funziona così. Ora me ne torno in
disparte, se non vi dispiace, ma finiamola presto, ché ho un appuntamento.
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