mercoledì 30 ottobre 2013

Diciannovesimo scrutinio



Diciannovesimo scrutinio:
28 Aprile


Stamattina c’è un’aria stantia. Non è il solito parlamento brulicante di chiacchiere e conciliaboli. Sembra di essere tornati di colpo indietro nel tempo. Se queste facce che vedo attorno a me fossero in bianco e nero, probabilmente non noterei la differenza. Stamattina, quando tutto è ormai deciso, quest’aula sembra un pezzo d’antiquariato. Come una bambola di porcellana, come un carillon, come una sedia a dondolo tarmata intravista dalla vetrina di un robivecchi con la testa sempre a china a leggere il giornale, il Corriere della Sera, o il Resto del Carlino coi loro bei servizi sull’Italia del primo novecento. Ai miei colleghi mancano i baffoni bianchi e poi potrebbero essere benissimo trasportati all’inizio del secolo scorso. Fino a ieri mi sembrava di vivere nell’elettronica. Oggi ,mentre la voce della segretaria d’aula continua a elencare i nomi della chiama, mi sembra di udire in lontananza il suono di un pianoforte. Un vecchio pianoforte. Oggi potrebbe anche essere il mio ultimo giorno. Ho già votato e ho mentito ancora una volta: alla fine ho scritto “Travai” e ho deglutito con fatica. Poi il groppo in gola è svanito. Dopo di me è entrata in cabina Margiotta e mi ha salutato. Velocemente. Ora che i secondi passano lenti lei non c’è più. E’ fuori dall’aula, a parlare con chissà chi. Io sono qui dentro, mentre fuori piove. Come ieri. Eppure fa caldo, dicono. E’ l’estate che arriva. Ho il cellulare spento. Forse mia madre è preoccupata per me. Ho un foglio di carta bianco davanti agli occhi. Ho una matita spuntata poggiata sul foglio. E’ tutto immobile. Comincia lo scrutinio che l’aula è mezza vuota. Margiotta rientra. Aveva ragione: sta invecchiando. L’ho vista camminare a fatica, ho visto uno sguardo un po’ troppo velato per essere giovane. Avrei voluto disegnarla, ma oggi la mia mano è stanca e preferisce sorreggere il mio mento. Ascolto una lunga fila di “Travai” uscire dalla bocca del presidente. Sono come dita che spingono sempre sugli stessi tasti di un piano. Dello stesso vecchio piano che accompagna la nostra seduta odierna. Un’altra parte della storia d’Italia è finita. Potranno essere aggiornate le statistiche, le pagine su Wikipedia. Il tempo potrà andare avanti ancora. Come va sempre avanti, nonostante possa essere tutto diverso. Suonala ancora ,presidente. Vai avanti con questo Travai. Gli giureremo eterna fedeltà. I voti dispersi sono pochi: c’è ancora qualche Reglia, qualche Piovani, qualche Ciocca. C’è anche un Marchini. E’ stato un attimo in cui ho sentito il mio nome essere pronunciato. Non ci ho fatto caso subito. Poi, mentre la lista proseguiva con nomi diversi, ho girato la testa. L’onorevole Margiotta era girata verso di me, mi ha fatto il segno della vittoria con la mano e mi ha sorriso. Mio dio che bello quel sorriso. Potrei morire per vederlo ancora una volta. Quando ha continuato a fissarmi ,senza più sorridere, ho capito. E’ stata lei a votarmi. L’ho salutata in risposta. In fondo glielo devo. Mi ha regalato un pezzo di storia. Non è questo che ho sempre voluto da quando ho iniziato a fare politica? Sono un uomo fortunato. Qualcuno mi avrebbe voluto presidente della Repubblica. Quando il quorum è raggiunto l’aula scoppia in un applauso fragoroso per l’elezione di Travai. Mi alzo in piedi e applaudo. Ma penso a come sarebbe stato essere eletto. Oddio, non ho cinquant’anni e non avrei potuto farlo, ma al diavolo la legge, almeno un secondo posso immaginare. Se Margiotta si fida di uno come me, forse c’è speranza per il mondo. Noi politici invece siamo fottuti, perché vuol dire che non c’è più religione, che il buon vecchio Andreotti aveva torto, che a volte si sta meglio da impiegati che da direttori. Perché gli impiegato, rintanati al fondo del loro piccolo ufficio, possono sussurrarsi quello che davvero pensano sia la cosa migliore. E questo Travai non potrà mai farlo, ora che è diventato presidente della Repubblica. Quando la seduta finisce mi ricordano che la riunione del gruppo è stata anticipata all’ora di pranzo. Non avrò nemmeno il tempo per il mio panino, ma con tutta probabilità durerà poco. Qualche minuto e poi tutti via. Oggi possiamo fare finta di essere uniti. Per la guerra c’è ne è di tempo. Anche la riunione di Margiotta è stata anticipata. Ma nei corridoi del transatlantico la vedo sfrecciare via, troppo veloce anche per me, verso l’uscita. S’è girata un paio di volte per guardare e mi ha fatto uno sguardo che implorava comprensione: oggi ha tradito due volte, non ha votato Travai e non si presenterà alla riunione. Ma che cosa lo guadagna a fare lo stipendio? Oddio, questa domanda non bisognerebbe farla solo a lei. Sto entrando nella sala, c’è già qualche collega ad aspettare. Hanno facce serene, ma vecchie. Tanto vecchie. Anche i trentenni. Sento quasi puzza di chiuso, come entrare nella stanza da letto dei bisnonni che non veniva aperta da quarant’anni. Mi vibra il cellulare. E’ arrivato un messaggio che recita: “Buona fortuna. Jessica”. Spengo il telefono. Buona fortuna. E’ un bell’augurio per uno come me. E’ passato qualche minuto e la sala è piena. Il vice segretario, o quello che era il vice segretario, ha già iniziato il suo discorso. Sto pensando che potrei anche alzare la mano e chiedere la parola. Non mi sono iscritto a parlare, ma qui non dovrebbe fare più di tanta differenza. Ma cosa potrei dire? Potrei guardarli negli occhi, oppure potrei tenerli. Scelgo la seconda. Sapete che vi dico? Io oggi parlo, Gullotta si dispiacerà per me, diranno che non so stare al mio posto, ma pazienza. Buona fortuna. C’è una cosa che vorrei dire tanto, che sicuramente non sapete. Io, proprio io, sono vent’anni che faccio politica. Iniziai alle elementari, quando fui eletto capoclasse. Sembra strano, vero? Uno zitto e buono come me. Ma non è finita lì: rappresentante di classe alle medie, rappresentante di classe per i primi tre anni di liceo, e poi due anni da rappresentante d’istituto. La storia recente la sapete: consigliere comunale e, nel frattempo, uno dei coordinatori provinciali del partito. Ora deputato. E dire che io non so parlare, non l’ho mai saputo fare. Mi sono sempre vergognato come un matto. Però ho vinto spesso, perché io, che non so parlare, sono sempre piaciuto al potere. La mia unica arma: io ero quello che i professori ascoltavano, perché ero bravo ed educato, ero quello che sapeva fare la faccia giusta e sapere come mettere le cose in una certa maniera. E questo serve. E’ sempre servito andare d’accordo col potere. E a me il potere mi ama, mi ha sempre amato. Il timido ma educato, quello nella norma, ma diligente. Arrivavano i miei amici e mi dicevano che potevo farcela, perché io era l’unico che poteva parlare coi potenti, era l’unico a cui i potenti portavano rispetto. All’inizio non ci credevo, poi ,da grande, ho cambiato idea. Ora voi, che siete stati eletti magari perché sapete parlare alle piazze, o perché vi sapete mettere in mostra dentro il partito, non potrete mai capire quanto è bello essere amati dal potere. E’ una sensazione soffice ,come una coperta calda. La differenza fra me e voi è che mentre voi promettevate a voce alta il cambiamento, davanti ad un popolo di cinquantenni che sotto sotto ai benefattori al governo ancora ci credeva, io non parlavo. Io stavo zitto, e poi, quando me lo chiedevano, se me lo chiedevano, rispondevo che sarei andato a parlare con chi di dovere e avrei fatto il possibile per risolvere il problema. Nella maggior parte dei casi ci sono riuscito e la gente ha iniziato a votarmi sempre più. Io non ho mai promesso il cambiamento, perché so bene che il cambiamento non deve partire da me. Io faccio quello che posso. E ora mi chiedo: che posso fare? Posso votare insieme a voi, oppure posso tradire. Ma alla fine c’è una differenza fra le due cose? Se volete la mia opinione, non me ne frega proprio un cazzo. L’unica cosa che importa è farsi amare dal potere. E io so come si fa. Dura ancora adesso: mi ronza intorno, mi cerca, mi desidera, mi chiede di restare più a lungo la sera, mi chiede di ascoltare il mio cuore. Ancora oggi il potere mi ama, perché io sono l’unico in grado di rilassare il sorriso dopo l’ansia quotidiana. Io sono un uomo di pace. Le persone che ti amano ti sanno anche ascoltare, e io qualche volta parlo, per doppi sensi e sempre sottovoce, ma parlo, ed oggi ho scoperto che il potere mi ha ascoltato, ha capito quello che volevo da lui. O da lei, perché il potere spesso è femmina. Più di quanto possiate credere. Io ho cambiato il cuore al potere, forse non sono riuscito a portarlo alla santità. Ma un potere santo non è più un potere. E allora ho capito dove sbagliamo. A tutti noi piace il potere, ma ci ostiniamo a far finta di sputargli addosso. A qualcuno piace, d’accordo, e forse porta il voto di qualche gentile pensionato ex partigiano. Ma è così bello il potere, non si può tradirlo con queste bugie. Ho sentito che ci sarà da cambiare segretario. Ho pensato che uno giovane come me potrebbe candidarsi. E voi, che potreste scegliere Bucci o qualche relitto imposto dal comitato di saggi qui davanti a me, potreste anche scegliere me. Perché? Perché vi prometto che io dal potere mi faccio amare. E ascoltare. Potrò scendere in strada a convincere una persona. Ogni persona convinta ci avvicinerà al letto del potere. Voi, nella vostra carriera, quante persone avete convinto che non fossero già delle vostre idee? Credo ben poche. Io oggi l’ho fatto. Ho dovuto distruggere un muro di diamante, e scorticare un armatura luccicante da un corpo marcio di difetti. Ma sono arrivato al cuore del potere, e lei mi ha sorriso e mi ha detto “Hai vinto”. Io ho vinto, sapete? Domani mi sveglierò con un nuovo inquilino al Quirinale e tutto comincerà come al solito. Noi non possiamo cambiare la storia, perché il sole sorge sempre da destra, che lo vogliamo o no. Possiamo però convincere la gente. Possiamo accarezzare il potere. Possiamo parlare, possiamo rompere il muro. Possiamo intascarci gli undicimila euro al mese più immeritati del mondo, ma col sorriso, perché quel giorno avremo stretto la mano a una persona e quella avrà riconosciuto che sì, abbiamo ragione, e il giorno dopo ci dirà che abbiamo vinto. Ascoltatemi ,vi prego, perché sono vent’anni che faccio politica e so che la politica funziona così. Ora me ne torno in disparte, se non vi dispiace, ma finiamola presto, ché ho un appuntamento.

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