lunedì 4 marzo 2013

Un'immaginazione


Un’immaginazione

Però l’Africa è un’immaginazione. E’ il tramonto biblico del Nilo, sulle cui acque basse, vicino alla riva, un padre e un figlio, forse in fuga, camminano, seguendo il corso del fiume. La storia di quegli uomini è l’Africa, ma l’Africa non esiste, è un sogno. C’era una volta un regno, ma ora non più. Le parole ancora dolci della millenaria fiaba scorrono lente sul Nilo, rinfrescato dalle frasche mosse dal vento ai lati dei suoi argini. Gli uomini camminano, ma il loro viaggio pare non avere meta. Scappano dalla povertà che tiene in braccio il continente, scappano dalla falsa libertà o dal falso progresso di molti regimi. Si chiedono come il presente possa cambiare. Guardano al passato. La storia è il loro unico conforto. C’è stato un tempo in cui l’Africa era grande ed ha allevato gli uomini, ha permesso che crescessero e che imparassero a vivere, li ha ospitati nelle verdi valli che adesso si chiamano Sahara, ma verdi non sono.
I templi dei faraoni guardano distratti il cammino dei due. A tratti il più giovane dei due, il figlio, alza lo sguardo al cielo, si asciuga il sudore dalla fronte, porta un passo avanti e sogna della gloria di Menfi o di Tebe che non ha letto sui libri di scuola, perché a scuola magari non ci va nemmeno, ma sui versi in rima della sua fantasia. Vorrebbe riprenderselo il passato, ma da solo non sa se può farcela. Quando il letto del fiume si restringe, i due uomini lo abbandonano. Sono ormai nell’alto Egitto. Lungo l’acqua una barca a motore arriva veloce. Sono stranieri, ma non hanno la faccia cattiva dei mercanti d’Europa o d’America. Portano sacchi di cibo e parole nella testa da insegnare ai bambini. <<Siamo qui per aiutarvi>> dicono mentre costruiscono una scuola , regalano ai due un portafortuna: un ciondolo di Iside. <<Anche noi possiamo aiutarvi, con tutto quello che abbiamo>> dice il giovane <<Ma solo quando voi lo capirete potremo farlo per davvero>>. Camminano.  Fuori dal fiume c’è ancora il deserto. La sabbia mormora, mossa dal vento, ulula piano solitaria sotto i loro passi che affondano nel cuore delle dune.
C’è un’oasi, in mezzo alla notte, nel buio. L’aria che sfiora le palme le fa vibrare come un flauto. Quando Allah ha voluto scrivere le Mille e una Notte forse lo ha fatto lì. Padre e figlio si siedono, una polla d’acqua davanti a loro, un dattero fra le mani. <<Ti manca tua madre?>> chiede uno, l’altro scuote la testa, sforzandosi di mentire. Si rialzano e nel cammino le lacrime si seccano ancor prima di scendere dagli occhi. Il loro sogno dura ancora, così come la sabbia, che sembra non finire mai. Ad un certo punto però finisce anche quella. L’inferno di Dio ,che spacca la roccia fino a farla diventare sabbia, cede pian piano il passo a qualche baobab sparso, a qualche pozzanghera ereditata dalla pioggia. Gli animali vi si abbeverano, anche i due uomini, affaticati dalla traversata del deserto. Aspettano che i leoni se ne vadano e si avvicinano all’acqua senza far rumore. Bevono a piccoli sorsi, si sorridono l’uno con l’altro, ma non sanno ancora perché sono lì. Loro due,persi in mezzo alla savana, guardano sulla linea tremolante dell’orizzonte le fronde della foresta pluviale che si alzano, e nascondono genocidi, lotte fra tribù, e uomini che firmano col sangue degli altri qualunque cosa. Finire fra quei massacri fa paura a tutti, anche a due fuggiaschi senza speranza. Il buio della giungla nasconde l’odore della morte, così e più facile da ignorare. Un gruppo di bianchi, bianchi come il latte, costruisce una capanna in un villaggio. Alcuni sono bianchi anche nei vestiti. Sembrano dottori. Loro due si fermano, e guardano. C’è chi il sangue non lo usa solo per firmare, ma anche per curare. Sono grati ai dottori stranieri. <<Con le vostre armi ci ammazzate, con il vostro sangue ci curate>> dice il giovane <<Ci curereste ancor di più portando scuole e sogni dai vostri paesi, invece che mitraglie>> La terra rossa s’alza mossa dal vento. Caldo. 
Se ne vanno ancora. Fermi non possono stare. Fra le radure a macchia strette fra la foresta, le piogge, i laghi dimore di fenicotteri e le mandrie in corsa per la vita, c’è un vulcano, su cui si dice sia nascosto il tesoro del figlio di re Salomone. E’ un vulcano strambo, è il vulcano dell’Africa. E’ coperto dalla neve. Il padre indica al figlio la grande montagna bianca. Anche se non hanno letto Hemingway, sono comunque muti di fronte alle nevi del Kilimangiaro. Si chiedono se il gelo serafico di quella cima, che resiste al bollore delle viscere dentro di sé, potrà invadere tutto il continente un giorno. E’ un mondo in rivolta, è un mondo in fuga da se stesso, come loro due, contadini o pescatori od operai abituati a vedere il proprio sudore cadere per terra e formare rigagnoli sulla sabbia. Si siedono per riposarsi. Hanno viaggiato tanto e intorno a loro c’è ancora solo sabbia. Un nuovo deserto, uno dei tanti, ma questa volta il caldo è alleviato e lascia spuntare sulla bocca un sorriso. Stesi fra le dune del Namib, hanno alle spalle la sabbia e davanti il mare. Il blu quasi acceca, il freddo dell’acqua scorre sotto la terra. Il tutto e il nulla, l’infinitamente arido e l’infinitamente umido che si toccano, si abbracciano ,pare quasi che si amino. E’ l’amore per l’Africa. Con lo stesso amore gli stranieri costruiscono le capanne nei villaggi, o curano un’infezione, o semplicemente partono, ma non per fotografare i leoni da dietro il vetro di una jeep. Partono per l’Africa. Non bisogna per forza nascere in Africa per essere africani: serve tornare col pensiero al momento primordiale della nascita di un uomo. Serve sorridere d’amore per il miracolo della concordia che si realizza fra due sguardi, mentre ,insieme, guardano al sole e pensano al domani.
Quell’amore rende fertile la terra, anche quando è deserto e, davanti agli occhi dei due uomini, fa nascere un giardino. Fiorisce il Gelsomino ed alzano la testa le palme sulle sponde del Nilo. Forse i templi dei faraoni non potranno più essere così indifferenti, chiusi nel mito della forza di ieri. C’è una famiglia spezzata in riva al mare, lungo il deserto. Sono padre e figlio, senza nulla con cui vivere. Quando davvero il mondo crederà nell’Africa darà lei non solo l’amore dei volontari e missionari. Darà la speranza di vivere in un paese libero, dove libero è il lavoro. Ma la Speranza muore se non c’è nessuno a tenderle la mano. Sorridono , perché sono ancora vivi. Quell’immaginazione che chiamano Africa è talmente vera da rimanere stupefatti. Nell’attimo della contraddizione deserto-mare vedono lo spruzzo di una balena alzare una colonna d’acqua azzurra nel cielo grigio della mattina. Freddo. Il loro è stato un viaggio nel sogno, fra gli alberi in cui sono nati, milioni di anni prima, i loro genitori. E’ forse quell’eredità comune che li fa sentire uguali,che chiede d’essere condivisa con il mondo per una nuova civiltà.
<<Però l’Africa è un’immaginazione>> dice il padre socchiudendo gli occhi. Bello farla diventare realtà. 

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